FABIO BERTAMINI
- La dottrina della giustificazione in Lutero
Per comprendere la dottrina di Lutero riguardo il tema eucaristico è indispensabile conoscere alcuni tratti essenziali del suo pensiero teologico. Il punto di partenza della riflessione del Riformatore, come è noto, è dato dall’«esperienza della torre» (1513). Ritirato nella torre del castello, mentre meditava il primo capitolo della Lettera ai Romani, Lutero ebbe un’improvvisa illuminazione: l’uomo nella sua condizione esistenziale si trova in una incapacità radicale di compiere il bene e di acquisire meriti perciò la giustizia di Dio in rapporto all’uomo, non può essere intesa in senso retributivo ma solo attributivo:
Nelle dottrine umane viene rivelata e insegnata la giustizia degli uomini […] nel Vangelo invece si rivela la giustizia di Dio, per mezzo della sola fede con cui si crede alla Parola di Dio […]. Ciò è detto per distinguerla dalla giustizia degli uomini, la quale risulta dalle opere, appunto come la definisce apertamente Aristotele nel libro dell’Etica. Secondo lui la giustizia consegue agli atti e sgorga dagli atti. Invece secondo Dio la giustizia precede le opere e le opere provengono da essa [1].
Dando a Rm 1,17 un’interpretazione nuova, Lutero si convinse che la giustificazione dell’uomo peccatore è dono di Dio. Dio rende giusto il peccatore grazie al sacrificio del suo Figlio. Le preghiere, i digiuni, le elemosine, le indulgenze e così pure i sacramenti non servono a nulla perché la salvezza è opera gratuita di Dio. Anzi, ogni apporto umano in vista dei meriti è da considerasi un atto di superbia, l’uomo infatti di fronte alla giustizia di Dio non può che mettersi in uno stato totalmente passivo. Nella disputa con Erasmo, Lutero, inoltre, manifesta la consapevolezza che l’uomo non è capace di libero arbitrio poiché tutto avviene per necessità sotto la predeterminazione e prescienza divina e, dal momento che la volontà dell’uomo è irrimediabilmente corrotta dal peccato di origine, tutte le opere che l’uomo compie sono da considerarsi peccato: dall’albero cattivo non possiamo aspettarci che frutti cattivi[2]. Lutero non nega che l’uomo possa compiere azioni volontarie ma queste azioni volontarie non sono libere. La volontà senza la grazia vuole veramente il male e con la grazia desidera veramente il bene. Essa non è libera perché non può modificare il suo modo di agire in quanto soggetta ad una necessità che non dipende da lei[3].
In Lutero, come in S. Agostino, il peccato originale si identifica con la concupiscenza la quale è una propensione innata dell’amore egoistico che si contrappone all’amore puro e disinteressato di Dio e che viene trasmessa da Adamo a tutti i suoi discendenti[4]. Perfino il timore e la speranza teologale vengono considerati dal Riformatore espressione di un amore interessato e quindi frutto della concupiscenza. Commentando la Lettera ai Romani al passo in cui l’Apostolo afferma che desidererebbe essere lui stesso anatema per amore dei fratelli (Rm 9,3) afferma:
Dovremmo notare che queste parole appariranno strane e persino folli a coloro che considerano se stessi santi, e che amano Dio con un amore di concupiscenza, cioè in vista della loro salvezza e del loro eterno riposo, e per evitare l’inferno; in altre parole: non per amore di Dio ma per amore di se stessi. Sono coloro che blaterano che l’amore ordinato comincia da se stessi e che ognuno deve prima di tutto desiderare la propria salvezza, e poi quella del suo prossimo come la propria. Queste idee mostrano che essi non sanno che cosa significa essere salvi e benedetti, a meno che, naturalmente, essi non prendano queste parole per indicare quella vita buona e felice che essi amano immaginare per se stessi. Ma, per la verità, essere benedetti significa cercare in ogni cosa Dio e la sua gloria, e non volere nulla per se stessi, né in questa né nell’altra vita [5].
Solo la consapevolezza della misericordia di Dio, che Dio cioè guarda al peccatore attraverso il sangue del proprio Figlio può destare fiducia nell’uomo. I peccati però non vengono “rimessi” ma semplicemente non imputati poiché il sangue di Cristo li copre e Dio non può vederli. È questa consapevolezza che fonda quella fede-fiducia, (frutto paradossalmente del solo sforzo umano!), la quale giustifica (rende giusto) davanti a Dio il peccatore liberandolo dalla legge. Legge, che, pur tuttavia, mantiene in sé un valore pedagogico perché indica al giustificato la via del bene da percorrere e, ponendo l’uomo di fronte al suo peccato, lo conserva nell’umiltà [6]. La grazia secondo Lutero non è quindi un dono che trasforma in profondità l’uomo connaturandolo a Dio, come nella visione cattolica, ma è la stessa giustizia divina che, pur lasciando intatta la condizione decaduta e peccatrice dell’uomo, non lo considera più responsabile dei peccati commessi. L’uomo quindi è contemporaneamente giusto e peccatore (simul justus et peccator):
Dunque noi tutti nasciamo nell’ingiustizia e in essa moriamo. Siamo giusti soltanto grazie alla considerazione di Dio, che ha misericordia di noi, per la fede che prestiamo alle sue parole [7].
- Il sacerdozio comune dei fedeli in Lutero
Tutti i salvati secondo Lutero si trovano sullo stesso piano, perché tutti posseggono allo stesso modo l’ufficio messianico di re, sacerdote e profeta:
tutti insieme siamo un corpo solo del quale ogni membro compie l’azione che gli compete per servire a ogni altro […] e che abbiamo uno stesso battesimo, uno stesso Evangelo, una stessa fede e tutti siamo egualmente cristiani, grazie appunto al battesimo, all’Evangelo e alla fede, perché ad essi soltanto spetta di costruire un popolo sacerdotale[8].
Esiste, dunque, un unico sacerdozio comune a tutti i fedeli ed è solo per l’ordine e il funzionamento della comunità che l’esercizio del sacerdozio è affidato a qualche ministro particolare preparato e preposto dalla comunità a compiere questo ufficio. Secondo Lutero, infatti, «nessuno può arrogarsi personalmente, se non ne sia incaricato, ciò che è di tutti»[9]. E nessuno può conferire un incarico siffatto se non la Chiesa attraverso la designazione del candidato e il rito dell’ordinazione. Il battezzato fatto ministro diventa insieme la voce di Cristo e della comunità: di Cristo perché annuncia alla comunità la parola di Dio, della comunità perché essa affida al ministro la propria crescita della fede e ne porta ai piedi di Cristo l’adorazione e le suppliche[10]. E’ evidente che Lutero ignora sia la dimensione del sacerdozio ministeriale istituito da Cristo nell’ultima cena, sia il carattere gerarchico della stessa Chiesa voluto dal suo Fondatore (Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1536 ss).
- L’eucaristia come dono
Nella Chiesa cattolica la liturgia si presenta come una costruzione sempre in crescita, anonima e secolare, nel luteranesimo la liturgia si presenta in grandi linee come opera di Lutero. Il Riformatore avrebbe voluto modificare radicalmente i riti cattolici in modo che esprimessero in modo più coerente l’idea del sacerdozio universale dei fedeli ma per non urtare la sensibilità del popolo che manifestava un forte bisogno di un culto esterno e animato, non riuscì ad attuare completamente la riforma che avrebbe desiderato[11].
La Formulae Missae del 1523 e la Messa tedesca del 1526 elaborate da Lutero, conservano quasi tutti gli elementi della Messa cattolica ad eccezione dei riti di offertorio e il canone. La struttura, tuttavia, venne notevolmente modificata perché al centro non sta più l’eucaristia ma la parola di Dio.
Considerare la Messa un’opera buona e un sacrificio è, secondo Lutero, l’abuso più grande anche se «non c’è quasi nulla, oggi, nella chiesa, che sia più generalmente ammesso e creduto con maggior convinzione»[12]. Lutero crede che la Messa sia un modo attraverso il quale l’uomo pretende di acquisire dei meriti compiendo un’opera (il sacrificio) a favore di Dio. Tale interpretazione non può quindi essere accettata:
la parola di Dio va innanzi a tutto, segue la fede, a cui tiene dietro la carità, che compie ogni opera buona. […] L’uomo non può incontrarsi con Dio e avere a che fare con lui per altra via che con la fede, cosicché non l’uomo è artefice della salvezza con alcuna sua opera, ma Dio con la sua promessa, e tutte le cose dipendono, sono recate e conservate nella parola della sua potenza[13].
Perciò l’uomo non può offrire qualcosa a Dio nella Messa ma deve accettare il dono: l’eucaristia è il testamento con cui Dio (il testatore) lascia in eredità la salvezza compiuta da Cristo e il pane ed il vino sono il sigillo di questo dono[14]. «La messa è il contrario di una sacrificio, perché quella la riceviamo, questo invece lo offriamo. Ora, la stessa cosa non può nello stesso tempo essere ricevuta e offerta, né può nello stesso tempo essere data e accettata dalla stessa persona»[15].
Oltre all’impossibilità di riconoscere l’eucaristica come sacrificio, Lutero manifestò un altro motivo polemico: l’idea della Messa come ripetizione del sacrificio della croce. Lutero conosceva le Sentenze di Pier Lombardo attraverso l’interpretazione nominalista di Gabriel Biel su cui aveva studiato meritandosi il grado di sententiarius. Secondo questa interpretazione nominalista, Cristo veniva immolato ogni giorno nel sacramento. Ma Cristo, come afferma la Scrittura, non ha annullato una volta per sempre tutti i peccati con l’unico sacrificio di se stesso? Invece i sacerdoti cattolici «come se quella sola vittima non bastasse, ogni giorno sacrificano corpo e sangue in mille luoghi per tutta la terra. E con questo loro sacrificio promettono una redenzione dei peccati che non dura per sempre, ma che deve ogni giorno essere rinnovata». In questo rendono vano il sacrificio di Cristo e distruggono la fede del popolo, infatti se è necessario chiedere perdono con un sacrificio quotidiano «è inevitabile che venga meno la fede che crede che tutti i miei peccati sono definitivamente cancellati dall’unico sacrificio di Cristo»[16].
Considerata in questo modo, la Messa, secondo il Riformatore, costituiva una delle principali cause dell’indebolimento della fede. Il popolo di Dio non era più chiamato a fare eucaristia, cioè a ringraziare Dio per il dono ricevuto, ma era incitato a partecipare al rito in modo freddo e insensibile per il solo scopo di accumulare meriti[17].
Lutero, inoltre, attaccò duramente la lettura a bassa voce del canone perché non solo allontana dall’ascolto ma induce i fedeli a considerare la Messa come sacrificio[18]. Anche l’uso sistematico della lingua latina venne contestato. Cosa servirebbe udire le parole del rito in una lingua incompressibile? Il Riformatore non esita, quindi, a incoraggiare l’uso della lingua parlata nella liturgia soprattutto per una effettiva partecipazione degli incolti, tanto più che la messa doveva riacquistare il suo significato di predicazione dell’evangelo e perdere quello di sacrificio[19].
Tuttavia, se Lutero dimostrò un debole interesse per le questioni formali, si può invece riscontrare in lui un rinvio continuo, quasi ossessivo, al nucleo essenziale dei contenuti della fede e la determinazione a verificare questo centro mediante la Scrittura. Non vi era in lui un rifiuto preconcetto degli elementi della tradizione quali ad esempio il celibato dei preti, le immagini sacre, il monachesimo… ma sempre si sforzava di confrontarli con i parametri del solus Christus, sola gratia, sola Scriptura[20]. Un esempio illuminante di questo modo di procedere è l’analisi in merito al concetto di sacrificio in riferimento alla celebrazione eucaristica:
Lutero non voleva cancellare radicalmente questo concetto dalla coscienza che la chiesa si era formata sul sacramento. Era possibile che, continuando ad usarlo, si corressero gravi rischi di fraintendimento, come dimostrava l’abuso che ne aveva fatto la chiesa di Roma; ma esso era troppo denso di significato per rinunziarvi del tutto; ancora nel Sermone sul Nuovo Testamento, Lutero si impegnò ad analizzare il senso che poteva avere la messa intesa come sacrificio.
Non certo un sacrificio che offra il corpo di Cristo: nella messa i cristiani ricevono, non danno un beneficio. Dove si è mai sentito che ricevendo un’eredità si compie un’opera buona? Ma quando i cristiani si riuniscono per ricevere insieme il beneficio del sacramento, rivolgono a Dio la loro preghiera di ringraziamento, e questa (poiché nasce dalla fede, dalla contrizione e dall’affidamento alla grazia) è veramente un’opera buona, una «offerta». Grati per il beneficio ricevuto, i cristiani manifestano poi la loro riconoscenza provvedendo ai bisogni degli altri: la tradizione della «colletta», della raccolta di cibo o denaro che vengono in seguito distribuiti ai poveri, costituisce anch’essa una offerta […].
Ma si può dire che i cristiani offrono anche qualche altra cosa, più importante, purché si distingua «oculatamente tra ciò che sacrifichiamo e ciò che non sacrifichiamo» (WA 6,365,25-26), anzi «dobbiamo esaminare attentamente la parola “sacrificio”, affinché non presumiamo di dare qualcosa a Dio nel sacramento, mentre in esso è lui che ci dà ogni cosa» (WA 6,398,1-3). A queste condizioni, è possibile considerare un sacrificio l’offerta spirituale di se stessi, con la quale «dobbiamo offrire noi stessi alla volontà divina, affinché Dio faccia di noi quel che vuole secondo il suo divino beneplacito» (WA 6,368,7-8). Per fare questa offerta non possiamo presentarci di persona davanti a Dio, ma abbiamo bisogno di un sacerdote, che non è affatto il prete ordinato ma Cristo stesso, al quale ci dobbiamo affidare, e che presenta per noi il sacrificio; «non noi sacrifichiamo Cristo, ma Cristo “sacrifica” noi; in questo senso è sopportabile, anzi persino utile, che chiamiamo la messa un sacrificio» (WA 6,396,3-5).
Per la forma paradossale in cui sempre si manifesta l’amore di Dio, questo sacrificio non va a suo vantaggio ma a vantaggio dell’uomo. I «frutti della messa» sono «pace e gioia» per chi crede nelle parole del testamento. Questa è la ragione per la quale la messa deve essere celebrata anche se non si tratta di compiere un sacrificio per Dio: perché «la messa è la parola di Dio della quale nessuno può fare a meno», e noi «viviamo in mezzo al mondo, alla carne e al diavolo che non smettono di attaccarci e di spingerci verso il peccato. Contro queste cose l’arma più forte è la santa parola di Dio, che anche san Paolo chiama una spada spirituale (Ef. 6,17), efficace contro tutti i peccati» (WA 6,373,10 e 12-16). È la parola dell’istituzione eucaristica: questo è il mio corpo dato per voi. Perciò per celebrare il sacramento della Cena è necessario uno spirito contrito; quelli che sono spavaldi e soddisfatti di sé non hanno bisogno di consolazione, perché il peccato non li tormenta e non aspettano con ansia il perdono amorevole di Dio (WA 377,3-6). Gratitudine e consolazione sono i due elementi della Cena che Lutero conservava in comune con la più antica tradizione della chiesa, nella quale l’idea di «sacrificio» non era ancora stata deformata, e poteva esprimere, invece dell’arroganza umana, il vero scopo per cui è stata istituita: «per predicare e lodare Cristo, per celebrare la sua passione e tutte le sue grazie e la sua benevolenza, perché noi fossimo spinti ad amarlo, a sperare e a credere in lui, e potessimo ricevere insieme alle parole o alla predicazione anche un segno materiale, cioè il sacramento, affinché la nostra fede, sostenuta e irrobustita dalle parole di Dio e dai segni, diventi forte contro tutti i peccati, le pene, la morte e l’inferno e tutto ciò che è contro di noi» (WA 6,373,26-31)[21].
- La Cena in Zwingli e Calvino
Dopo l’interpretazione di Lutero, è opportuno accennare alla teologia eucaristica di Zwingli e Calvino. Il pensiero riformato in merito all’eucaristia presenta una notevole varietà di interpretazioni. Se tutti convergono nel guardare con sospetto alla dimensione sacrificale della messa, la maniera di intendere la presenza di Cristo nel sacramento è invece assai differente.
Lutero riteneva che il Cristo è presente accanto alla sostanza del pane e del vino (consustanziazione), Zwingli affermava che le parole «Questo è il mio corpo» andassero intese in senso puramente simbolico: Questo rappresenta il mio corpo. Calvino, invece, pur negando la presenza reale, ritiene che nella consumazione del pane e del vino si stabilisca un’unione profonda tra Cristo e il credente.
In ambito riformato Zwingli ha sottolineato più di ogni altro la dimensione pneumatologica della Cena, affidando alla comunità, nella pluralità dei doni dello Spirito, un ruolo inedito. La comunità è il soggetto della lode e del rendimento di grazie (eucaristia) a Dio […]. È la stessa azione dello Spirito Santo che trasforma i partecipanti nel corpo di Cristo: l’attenzione non è più sugli elementi del pane e del vino (per quanto necessari) ma sulle persone che costituiscono la chiesa, corpo di Cristo, nella prospettiva di 1Cor 10,17. Dare voce alla comunità significa mettere in atto una liturgia dialogata che esprima con chiarezza il fatto che la Cena è l’elemento costitutivo della chiesa, una chiesa chiamata anche a superare il patriarcalismo così fortemente radicato nelle abitudini e nei costumi della chiesa come della società[22].
Calvino, nella Istituzione della religione cristiana (IV, XVIII, 13), afferma di non comprende perché il termine sacrificio si debba estendere a tutte le pratiche di culto, vi è un solo vero sacrificio, quello della croce e solo a partire da questo sacrificio è comprensibile anche l’altra categoria di sacrifici, quello del ringraziamento e della lode:
Questo tipo di sacrifici infatti non ha «la funzione di placare l’ira di Dio e ottenere la remissione dei peccati, né di procurar giustizia ma ha solo lo scopo di magnificare e glorificare Dio… questo sacrificio è così necessario alla Chiesa che non può essere tralasciato. Sarà pertanto eterno, finché durerà il popolo di Dio come ha scritto il Profeta». La citazione di Malachia (1,11) permette a Calvino di ricollegarsi direttamente all’esortazione di Paolo di Rm 12,1 in cui sono i nostri corpi che sono offerti a Dio in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: «questo è il vostro culto spirituale». Rivalutando dunque in questa prospettiva di lode e ringraziamento a Dio il concetto di «sacrificio», riprendendo anche Eb 13,15, Calvino così conclude: «Questo tipo di sacrifici non potrebbe non essere presente nella Cena di nostro Signore, nella quale, annunciando e commemorando la sua morte e formulando azioni di grazia, non facciamo altro che offrire sacrifici di lode… Non potremmo comparire davanti a Dio con i nostri doni e le nostre offerte senza un intercessore, e questo mediatore è Gesù Cristo che intercede per noi, in virtù del quale offriamo noi stesi e tutto quanto ci appartiene al Padre»[23]. (CONTINUA)
[1] WA 56, 171-172.
[2] Cf. R. Coggi, Ripensando Lutero, 51 -59.
[3] Cf. B. Mondin, Storia, III, 164.
[4] Cf. E. De Moreau, «Lutero», 138 – 140.
[5] WA 56, 260
[6] Cf. E. De Moreau, «Lutero», 140.
[7] WA 56, 287
[8] WA 6, 407.
[9] WA 37, 381.
[10] Cf. B. Mondin, Storia, 176.
[11] Cf. E. De Moreau, «Lutero», 146.
[12] WA 6, 512.
[13] WA 6, 514.
[14] Cf. S. Nitti ed., Lutero, opere scelte, 59.
[15] WA 6, 523-524.
[16] WA 12,175,10,18-30.
[17] Cf. S. Nitti ed., Lutero, opere scelte, 61.
[18] Cf. S. Nitti ed., Lutero, opere scelte, 37.
[19] Cf. S. Nitti ed., Lutero, opere scelte, 65.
[20] Cf. S. Nitti ed., Lutero, opere scelte, 66.
[21] Cf. S. Nitti ed., Lutero, opere scelte, 67-69.
[22] E. Genre, Gesù ti invita a cena, 99.
[23] Istituzione della religione cristiana IV, XVIII, 17; cit. in E. Genre, Gesù ti invita a cena, 105-106.