don Ennrico Finotti
Per Consacrazione si intende quel piccolo ‘insieme rituale’ che avvolge le parole del Signore e che si è costituito come un complesso singolare con una propria definizione, posto nel cuore della prece eucaristica, come culmen et fons della prece stessa. La liturgia romana, infatti, prevede che, giunti alla soglia della Consacrazione subentrino delle precise modalità rituali che avvolgendo e compenetrando l’atto consacratorio lo elevano alquanto, quale momento proprio del compimento del grande Mistero. Per questo il sacerdote: – sospende il ritmo celebrativo – muta il tipo di linguaggio passando dal genere narrativo al genere performativo – si inchina leggermente nel pronunziare le parole del Signore – le pronunzia con chiarezza, dignità e somma pietà – eleva le sacre specie e le adora genuflettendo. Questa ritualità mira ad affermare che ciò che le parole del Signore esprimono, qui ed ora lo realizzano.
Tutto questo sembra oggi costituire difficoltà e non è infrequente assistere alla quasi scomparsa del rito della Consacrazione, cuore del divin Sacrificio. Si notano riti consacratori furtivi, veloci, senza alcuna sospensione rituale, senza mutamento del tono di voce e con una notevole semplificazione degli atti adoranti connessi.
Si percepisce insomma un diffuso disagio nel consacrare e una incertezza o comunque perplessità nel porre con dignità, calma e stile i riti consacratori stabiliti. Si nota così una certa schizofrenia tra il senso del mistero che pure incombe e la mentalità prevalente che tende alla sua obliterazione o comunque alla sua riduzione. L’incertezza del sacerdote poi si trasmette nei fedeli presenti e il popolo non coglie più in modo netto quello che succede: se ci si trova davanti ad un evento reale oppure ad un venerabile racconto?
Il problema, di non poco conto, si deve risolvere alla radice, considerando anche i limiti dei presupposti teologici oggi alquanto diffusi. Infatti, nel dibattito postconciliare riguardo alla riforma liturgica si sono evidenziate due considerazioni vere:
1. Nei primi secoli l’intera Prece eucaristica era ritenuta consacratoria, senza preoccupazione del momento preciso in cui la transustanziazione si realizzava.
Naturalmente non mancarono mai testimonianze chiare sul valore determinante delle parole del Signore nell’attuazione del Mistero.
2. Il confronto con la tradizione orientale ha portato positivamente a considerare l’importanza dell’invocazione dello Spirito Santo (epiclesi), che l’Oriente ritiene formalmente essenziale alla ‘metabolizzazione’ delle specie.
Questi dati sono certo preziosi e utili per assicurare aspetti teologici e liturgici di alto profilo. Infatti, l’unità e la sacralità dell’intero Canone e la forza dell’Epiclesi sono riscoperte preziose e non più rinunciabili. Tuttavia anche la tradizione occidentale ha fatto progressi teologici importanti e altrettanto irrinunciabili:
l’individuazione delle parole del Signore come forma essenziale dell’Eucaristia e la loro valenza epicletica in quanto esse stesse pervase dalla potenza dello Spirito Santo.
I pronunciamenti del Magistero della Chiesa in tal senso sono molteplici e certi. Prescindere dalla tradizione latina per un ritorno archeologico ai primi secoli o per un allineamento con la tradizione orientale non è saggio e non apporta alcun vero arricchimento né alla teologia, né all’ecumenismo, ma piuttosto sarebbe un impoverimento sui due fronti. Occorre allora accogliere di buon grado la scelta della tradizione liturgica romana ed interpretarla con coerenza celebrando con precisione e convinzione i riti che la esprimono.
È allora necessario riscoprire la bellezza della‘ grande forma’ della Consacrazione per conferire splendore liturgico al grande momento ed imprimere con una forza singolare quel senso adorante e sacrificale che oggi è debole e che una vera arte del celebrare, fedele alle indicazioni liturgiche, è in grado di suscitare.