DON ENRICO FINOTTI
Prima parte: canone o anafora?
La più importante tra tutte le orazioni (eucologie) liturgiche è la prece eucaristica, nella quale e mediante la quale si compie sacramentalmente nel tempo il mistero della nostra Redenzione. Il sacrificio incruento della Croce, infatti, si attua nel cuore di questa grande prece ed è questo il motivo che la eleva ad una dignità eccelsa e la circonda di tanta venerazione e cura in tutti i secoli.
Nella liturgia romana l’unica prece sempre in uso fino al Vaticano II è il Canone Romano e ancor oggi è, fra le altre di nuova composizione, quella più eminente ed occupa il primo posto.
Il termine latino Canone significa regola e precisamente regola di azione (Canon actionis), ossia norma da seguire per elevare a Dio un culto conveniente e per realizzare un complesso di azioni rituali conformi e degne del Sacrificio sacramentale istituito e comandato dal Signore.
In Oriente, invece, la medesima prece è detta Anafora, che significa elevazione orante della mente e del cuore a Dio e che trova il suo perfetto compimento nell’offerta a Lui del sacrificio incruento del Suo divin Figlio.
E’ evidente che i due termini sottolineano due diversi aspetti del medesimo mistero: mentre l’Oriente col termine Anafora (oblatio – offerta ) fa’ riferimento al movimento interiore dell’azione sacrificale quale spirituale elevazione rivolta ad Patrem per Filium in Spiritu Sancto, l’Occidente col termine Canone (Canon actionis sacrificii) indica le regole esteriori necessarie per l’attuazione visibile ed integra di tale Sacrificio.
E’ migliore la prospettiva orientale o quella romana?
Si tratta di due sensibilità diverse, ma complementari. L’Oriente, più incline alla mistica, contempla i contenuti misterici della prece, che si eleva nel suo moto ascendente ad Deum. In tal senso il termine Anafora ne è adeguata espressione linguistica. Roma, invece, conforme al suo genio pratico e alla sua determinazione giuridica, considera la prece sotto l’aspetto concreto del suo attuarsi rituale e delle leggi liturgiche che esso impone per essere un atto sotto ogni aspetto valido e legittimo. Il termine Canone quindi è il più adatto ad esprimere quella prassi liturgica, che garantisce la rationabilis oblatio istituita dal Signore.
Ogni prece sacramentale, quelle orientali e quella romana, portano in sé sia la dinamica ascendente del sacrificio (Anafora), sia le norme liturgiche (Canone) che configurano la sua forma valida e legittima per poter accedere alla Maestà divina.
Questa spiccata attenzione giuridica non è solo consona al genio romano in quanto tale, ma lo è pure al ruolo della Chiesa Romana, quale Chiesa che presiede a tutte le Chiese. Infatti alla Chiesa Romana compete tener saldi i termini basilari affinché ogni Chiesa possa verificare il suo essere nella comunione cattolica riguardo alla professione della fede, alla celebrazione dei sacramenti e alla disciplina universale.
In tal senso a Roma continua ad essere attuale la decisione che gli Apostoli assunsero nel primo Concilio, quello di Gerusalemme: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie […] » (At 15, 28).
Il termine Canone, quindi, è quanto mai adatto ad un ruolo di governo, che richiede, soprattutto per il Sacrificio divino, norme essenziali e chiare per assicurare la ierarchica communio e verificarla continuamente. Roma, infatti è chiamata a proclamare a tutte le Chiese: In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas («unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in tutte») [1]. Anche la nobile semplicità (SC 34) a cui si ispira il rito romano e che ne costituisce la sua genialità, attesta quella sostanza necessaria del diritto liturgico, che Roma custodisce e che è richiesta a tutte le Chiese per attuare sacramentalmente l’opera della nostra Redenzione. Non a caso quindi Roma è scelta dalla divina Provvidenza per essere la sede della Ecclesia omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput [2].
Possiamo allora dire che se il termine Anafora richiama il sacro, ossia il mistero in essa contenuto e attuato, il termine Canone, invece, richiama il diritto, ossia quell’insieme di norme, che consentono al mistero di essere adeguatamente celebrato nello spazio e nel tempo e comunicato, qui ed ora, per la salvezza dei credenti.
Ed ecco i due pilastri basilari su cui si erge l’edificio liturgico: il sacro e il diritto. Senza il sacro il diritto rimane un involucro vuoto e senza il diritto il sacro perde la sua identità, la sua forma e la sua stessa sussistenza. Sono dunque due termini indissolubili come, per analogia, l’anima e il corpo nell’uomo o la natura divina e la natura umana nel Verbo incarnato.
Ecco perché né all’Oriente può mancare il diritto, né a Roma il sacro. (continua)
[1] Espressione attribuita a sant’Agostino d’Ippona.
[2] Scritta sulla facciata della basilica di san Giovanni in Laterano a Roma.