DON ENRICO FINOTTI
Il diritto liturgico, proprio della liturgia cattolica, si rivela nel suo esordio nelle parole di sant’Agostino, che afferma: Christus sacramentis numero paucissimis, observatione facillimis, significazione praestantissimis,societatem novi populi colligavit [1]. Cristo Signore, istituendo pochissimi sacramenti, molto facili da celebrare e quanto mai adeguati a ciò che devono significare, ha posto le basi fondamentali e sufficienti per l’intero complesso del diritto liturgico della Chiesa per tutti i secoli.
La Chiesa poi attualizza la salvezza quando celebra i sacramenti unendo la parola agli elementi (acqua, olio, pane, vino): accedit verbum ad elementum et fit sacramentum[2]. Cosa significa questa unione della parola all’elemento se non la realizzazione del sacramento secondo le leggi stabilite dal diritto liturgico, che definisce ciò che san Tommaso d’Aquino chiama la materia, la forma e il ministro relativi ad ogni azione liturgica, che intenda essere efficace in ordine alla Grazia e valida per ascendere alla Maestà divina?
Da ciò si comprende la superficialità e la pericolosità di quella mentalità anti-giuridica che ha suscitato un certo fascino verso la creatività, lo spontaneismo e la libera formulazione delle preci e dei riti. Senza l’osservanza del diritto liturgico vi è la precarietà di una natura debilitata dal peccato, che esprime una religione decaduta priva dell’opera della Grazia.
Un culto che ha l’odore della creatura, così come attualmente è, non penetra i cieli: l’odore dell’uomo, dopo il peccato originale, è odore di morte perché siamo peccatori e mortali. Al cielo sale soltanto un culto che abbia il buon profumo di Cristo, il Giusto e il Vivente, il quale non copre l’odore del peccato, – perché non vi è «intesa tra Cristo e Beliar» (2 Cor 6, 15) – ma estinta alla radice ogni traccia di peccato, infonde nell’uomo, rigenerato nel battesimo (o rivificato nella riconciliazione), il profumo della Grazia di Cristo.
Ebbene l’osservanza del diritto liturgico assicura che oggettivamente l’atto di culto sia in tutto e per tutto conforme al culto del Figlio unigenito, l’unico che può introdurci nell’intimità con l’unico e vero Dio. Celebrare la liturgia significa innanzitutto accettare una profonda purificazione per deporre il ‘corpo del peccato’ e l’odore della morte e rivestirsi di Cristo, assumere i suoi sentimenti, far proprie le sue virtù, entrare nella sua religione soprannaturale e perfetta, che ci riscatta dalla religione naturale ormai inquinata causa del peccato d’origine.
Certo occorre sempre mantenere l’equilibrio: all’osservanza del diritto liturgico deve corrispondere l’adesione del cuore. Se il solo diritto senza interiorità può portare ad un freddo rubricismo, l’interiorità soggettiva senza la forma del diritto liturgico porta al relativismo religioso e all’idolatria.
Tuttavia se devono coesistere ambedue gli elementi, la legge e il cuore, si deve riconoscere che lì dove viene a mancare la corrispondenza interiore, anche la mera osservanza del diritto ha comunque un valore fondamentale, perché assicura che il mistero nella sua realtà oggettiva sia reso presente e disponibile, almeno per tutti gli altri che partecipano al rito liturgico. Invece se cade l’osservanza del diritto, anche se vi fosse una interiore e sincera corrispondenza dell’anima all’azione liturgica, verrebbe meno nella sua oggettività l’evento soprannaturale della Grazia, il mistero sacramentale, che si attua soltanto lì dove il diritto liturgico è osservato almeno nelle sue dimensioni sostanziali.
Non si tratta qui di scegliere tra la legge oggettiva e la cosciente e libera adesione soggettiva, ma, pur esigendole ambedue per una celebrazione che sia fruttuosa in ordine alla salvezza, è necessario saper quanto sia delicato, pericoloso e talvolta fatale alterare il diritto liturgico: si tratta di incontrarsi o meno con l’oggettività del mistero divino. Qui sta la garanzia più alta che il diritto assicura alla validità delle azioni liturgiche.
I fedeli, se chiedono sacerdoti santi che vivano intimamente ciò che celebrano, chiedono ancor prima e con maggiore forza, anche se inconsciamente, sacerdoti fedeli al diritto liturgico, perché solo a questa condizione essi sanno di ricevere la realtà viva del Cristo, del suo Sacrificio, dei suoi gesti salvifici e della sua preghiera.
Il ricorso alla retta intenzione e all’influsso della Grazia per via extrasacramentale dà certamente conforto ai fedeli semplici e ignari che partecipano a celebrazioni mancanti o gravemente alterate, tuttavia quando il diritto liturgico è infranto coscientemente non si può presumere in colui che lo infrange né la retta intenzione, né l’efficacia della Grazia.
[1] S. AGOSTINO, Epist., 54, 1.Cfr. Contra Faustum, 19, 9.
[2] S. AGOSTINO, Hom. 80, 3 in Joan.; PL 35, 1840.