DON ENRICO FINOTTI
La notte e il giorno di Natale prevedono un rito del tutto singolare e unico nell’Anno Liturgico.[1] Durante il canto del Credo i ministri e tutto il popolo si inginocchiano e adorano il mistero dell’Incarnazione proprio quando si canta l’articolo et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est.[2] Il momento, se celebrato convenientemente, imprime un profondo senso di preghiera e suscita una straordinaria commozione spirituale, al punto da costituire quasi l’apice delle Messe natalizie. Per la verità questo articolo del Credo è sempre circondato da una speciale venerazione, infatti, la liturgia prevede che sempre nel pronunziarlo o cantarlo vi sia l’inchino profondo da parte di tutti i presenti, ministri e fedeli.[3]
Purtroppo l’indicazione è disattesa e neppure la si conosce, sicché è raro osservare questo gesto anche in assemblee liturgiche di spiccata importanza. Perché la Chiesa insiste su questo elemento così singolare e inconsueto? Certamente per suscitare nei suoi fedeli lo stupore del Mistero.[4] La consuetudine con i Misteri della nostra fede provoca assuefazione e facilmente i cristiani si abituano a Misteri straordinari, impensati e non dovuti, ma doni assolutamente gratuiti dell’amore misericordioso di Dio. La sorpresa e la novità degli eventi costitutivi della nostra fede si dilegua nell’abitudinarietà e nella quotidianità di una vita cristiana anche buona, ma priva di quell’esultanza dello Spirito e di quella meraviglia interiore, che si dipanano nel grigiore e nelle difficoltà della vita ordinaria. Ora l’atto di profonda venerazione che la tradizione ha impresso e tramandato nella liturgia natalizia nacque da quello stupore degli inizi, quando il primo annunzio della fede del Dio fatto uomo non poteva che sorprendere e, una volta accettato, suscitare un incontenibile senso di ammirazione e di gratitudine al Dio delle misericordie. Tale sentimento la Chiesa vuole rinnovare nel santo Natale. E in realtà tale rito manifesta una capacità straordinaria di suscitarlo, se celebrato con intelligenza e cuore. Ma perché la Chiesa comanda un simile atto di adorazione per il Mistero dell’Incarnazione nella solennità del santo Natale e non propone un analogo gesto adorante in corrispondenza di altri articoli del Credo nelle rispettive e diverse solennità liturgiche, come ad es. la domenica di Passione o quella di Pasqua, o l’Ascensione o la Pentecoste, ecc.? Innanzitutto occorre dire che la liturgia non è creata come un progetto unitario e completo fatto a tavolino fin dall’inizio, ma si sviluppa esistenzialmente in una serie di circostanza storiche, che nei secoli con motivazioni molto diverse creano espressioni rituali originali, che poi si stabilizzano e, tramandate nella tradizione, formano il volto concreto della liturgia attuale della Chiesa. Così la prostrazione adorante dell’et incarnatus est di Natale la riceviamo come un dato di fatto e una tradizione amata e consolidata. Occorre tuttavia osservare che circondare di stupore il Mistero dell’Incarnazione del Verbo è assicurare alla radice di ogni altro Mistero l’ammirazione adorante di tutto il complesso misterico della nostra fede. Infatti è l’unione della natura umana con la natura divina nell’unica persona del Verbo incarnato, che fonda le dimensioni infinite e salvifiche di ogni altro evento della nostra Redenzione. La tremenda passione e morte assumono un valore soprannaturale dall’unione ipostatica. Senza di essa la stessa passione si perderebbe in una ennesima vicenda dei tanti dolori umani, che intessono la storia. Così la lavanda dei piedi, se non fosse un atto compiuto dal Verbo incarnato, sarebbe un’espressione delle infinite umiliazioni, che scorrono nella triste vicenda dell’umanità-serva. Senza l’unione ipostatica non sarebbe possibile né la risurrezione, né l’ascensione, né il dono dello Spirito. Ecco allora come la Chiesa, facendo prostrare i suoi figli nell’Ora santa dell’Incarnazione, immette nel loro animo il senso dello stupore adorante alla radice stessa dell’opera della Redenzione, che accoglie nel suo primissimo e mistico esordio nella notte santa. Allora non è conveniente proporre una moltiplicazione del rito natalizio in altre solennità, sia perché in tal modo verrebbe tolta la tipicità della liturgia natalizia e diventerebbe un’espressione ordinaria priva di incisività specifica, sia perché altri misteri della fede non sono adeguatamente espressi con la prostrazione, ma piuttosto con la posizione eretta, come i misteri della Risurrezione, della Ascensione e della Pentecoste. Tuttavia, rispettata senza alcuna eccezione la tipicità dell’et incarnatus est, si potrebbe proporre con una ricchezza polifonica maggiore i versetti del Credo che nelle singole solennità celebrano il mistero in essi contenuto. Ciò già è proposto nella liturgia papale dalla cappella musicale pontificia. La prostrazione adorante poi intende porre l’assemblea liturgica in un atteggiamento di profonda partecipazione alla umiliazione del Signore, che con l’Incarnazione inizia il suo discendere dal cielo e il suo umiliante entrare nel mondo, dimorando in mezzo agli uomini. Infatti il Natale, se da un lato è festa di grande letizia per la venuta del Dio con noi e ha prodotto giustamente dei capolavori musicali e dei simboli di altissima e insuperabile poesia, tuttavia racchiude in sé anche l’inizio di quell’annientamento divino, che porterà l’uomo-Dio fino alla croce e alle tenebre del sepolcro. Occorre cogliere anche questo aspetto per non ridurre il Natale ad una gioia superficiale, ad un sentimento sterile e ad una celebrazione slegata dall’ascesi, dalla penitenza, dalla conversione e dalla carità vera, che implica rinuncia e condivisione reale con coloro che versano in ogni tipo di indigenza. Ecco allora che il rito della prostrazione adorante al canto dell’et incarnatus est compone insieme i due aspetti indissolubili: lo stupore grato, incontenibile, commovente, poetico e mistico del Dio che assume la nostra umanità e viene ad abitare in mezzo a noi e il dramma misterioso e carico di corollari imprescindibili in ordine al concreto svolgimento del Mistero pasquale, che solo attraverso la sofferenza e l’annichilimento del Figlio di Dio porterà alla gloriosa risurrezione. La povertà, i disagi e le umiliazioni di Betlemme non possono ridursi ad un mito indolore per una festa irresponsabile e superficiale, ma debbono, pur nel fulgore della grande gioia annunziata dagli Angeli nella notte santa, costituire motivo di seria meditazione e di serena adesione a quella Croce, che in essi è già in atto e profeticamente adombrata.
[1] Questo rito è previsto anche nella solennità dell’Annunciazione (25 marzo), ma non essendo questa festa di precetto, tale rito non viene celebrato solennemente e l’assemblea è perlopiù quella feriale.
[2] E’ chiaro che nella notte e nel giorno di Natale si deve accogliere senza indugio l’uso del Credo niceno-costantinopolitano, non del Credo apostolico, in quanto tale testo, introdotto recentemente con possibile scelta facoltativa, non si presta a realizzare il rito della prostrazione con quelle modalità e con quella distensione e solennità che la tradizione liturgica e musicale impone. Perciò si deve superare la diffusa mentalità che emargina sia il Credo eseguito in canto, sia l’uso del testo latino con la sua melodia gregoriana e la polifonia classica per il versetto et incarnatus est. Ciò è esplicitamente raccomandato dalla Chiesa nelle Premesse al Messale Romano III edizione, n. 41 : “…i fedeli… è opportuno che sappiano cantare insieme, in lingua latina, e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’Ordinario della Messa, specialmente il simbolo della fede e la preghiera del Signore”.
[3] MESSALE ROMANO III edizione, Premesse, n. 137: “Il simbolo (Credo) viene cantato o recitato dal sacerdote con il popolo stando tutti in piedi. Alle parole: E per opera dello Spirito Santo … e si è fatto uomo, tutti si inchinano profondamente; nelle solennità dell’Annunciazione (25 marzo) e del Natale del Signore (25 dicembre) tutti genuflettono”.
[4] Anche nella monizione classica al Pater nella Messa latina si nota lo stupore delle origini, quando il Signore comanda ai suoi discepoli di rivolgersi al Padre con quella singolare confidenza filiale Abbà, Pater. Non era cosa abituale né per i pagani, né per gli Ebrei una simile confidenza con Dio; ecco perché la Chiesa invita con trepidazione i suoi figli: Praeceptis salutaribus moniti et divina istitutione formati audemus dicere: Pater noster…