DON ENRICO FINOTTI
Ci raccontano i Vangeli che i discepoli discutevano tra di loro su chi fosse il più grande (Mc 9, 34). Analogamente anche noi possiamo porci questa domanda a proposito della liturgia: Chi è il più grande: il rito, il ministro o l’assemblea?
E’ una domanda interessante, in quanto nel comune sentire sembrerebbe scontata e quasi ovvia la risposta. Infatti, molti rispondono con sicurezza: certamente la più importante tra le tre realtà qui considerate è l’assemblea. Soprattutto chi vantasse di avere una qualificata formazione liturgica non potrà tergiversare nel dichiarare con determinazione che tutto è relativo all’assemblea e, sia il rito, come i ministri, non possano essere altro che in funzione dell’assemblea liturgica e in assoluta dipendenza dalle esigenze celebrative richieste da essa.
Ad una tale certezza si conferisce anche un fondamento teologico del tutto vero. In particolare si mette in luce come l’assemblea convocata per la liturgia sia l’immagine viva della Chiesa, Corpo mistico del Signore, in cui la sua presenza e la sua azione soprannaturale trovano il luogo più eminente della sua efficacia nella potenza dello Spirito. In essa si realizzano in modo speciale le parole del Signore “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Inoltre l’assemblea è destinata all’eternità, essendo fatta dalle pietre vive che sono i cristiani, rigenerati dalla grazia e consacrati dal crisma divino. Il rito e il ministro, invece, sono strumenti temporanei, destinati a passare insieme col regime visibile dei segni sacramentali, che sono propri del tempo presente e recedono dopo aver assolta la loro funzione santificante.
Su tale base teologica, del tutto legittima e vera, si aprono però delle scelte pastorali discutibili, ma ritenute quasi una conquista rispetto ad una concezione precedente, si dice, ritualista e formale per quanto riguarda il rispetto e l’osservanza puntuale del rito o clericale per il ruolo centrale e predominante del ministro.
La partecipazione attiva dell’assemblea sembrerebbe dover cancellare o almeno ridurre, sia l’esecuzione precisa del diritto liturgico, fatto di segni, gesti e preci stabiliti, sia il ruolo ben definito dei ministri legati essi pure alle regole rituali codificate e descritte nei libri liturgici.
Ed ecco che in questa prospettiva ogni attenzione ed ogni sguardo è rigorosamente rivolto all’assemblea, quasi che solo essa debba essere il referente assoluto ed esclusivo nel contesto di una celebrazione. I ministri e, in modo ancor più accentuato, i riti diventano strumenti a servizio dell’assemblea qui convocata. Essi sono usati con estrema scioltezza: non più regole predeterminate a cui obbedire, ma un canovaccio da impiegare con totale libertà di azione a seconda delle necessità dinamiche di un’assemblea che si costruisce da se stessa nella mutabilità continua di ogni nuova convocazione e nella diversificata composizione dei suoi membri.
Succede in tal modo che si apra con larghezza la strada agli abusi liturgici, che non rispettando più, né i contenuti oggettivi dei riti, né il ruolo necessario dei ministri ordinati, rischiano non solo di esporre la celebrazione all’illiceità, ma anche alla sua stessa invalidità.
Una “bella celebrazione” potrebbe essere priva della presenza sacramentale del Signore e del suo Sacrificio redentore, oppure non garantire più l’efficacia oggettiva e soprannaturale dei Suoi gesti salvifici, quali sono i Sacramenti. In questi casi l’assemblea liturgica potrebbe ridursi ad un raduno soltanto umano, ormai privo della grazia e pervaso dal debole fascino di un’attrattiva unicamente psicologica e demagogica.
Ma possiamo accettare una simile visione senza premettere una attenta verifica di ciò che purtroppo in tante comunità, da troppo tempo, sta in tal senso succedendo a detrimento della santificazione ed edificazione dei fedeli ?
Interroghiamoci: Cos’è il rito? O meglio: Chi è il rito?
Sembra strana questa seconda domanda, perché si crede superficialmente che la prece e il gesto sacro siano semplicemente delle cose inanimate e degli strumenti inerti.
In realtà la parola e il gesto del rito sacro è la stessa parola e il medesimo gesto del Signore, qui presente ed operante sotto il velo del sacramento e nel regime dei segni. Il rispetto del rito, la sua venerazione e la fedeltà ad esso sono in realtà l’accoglienza adorante e la docile sottomissione al Signore, che qui ed ora opera la nostra redenzione.
La disattenzione al rito, la sua emarginazione, fatta talvolta con tono saccente e superficiale, è in realtà una estraneazione dal Signore e dalla sua invisibile, ma vera azione di grazia. La caduta di venerazione verso il rito è il collasso dell’adorazione al Signore stesso che qui parla, si immola, ci guarisce e ci innalza alla dignità di figli adottivi di Dio. E’ evidente che coloro che avranno ben acquisito questa percezione teologica comprenderanno che è il rito il più grande e che la salvezza dell’assemblea dipende da esso perché è per l’azione soprannaturale del Signore, veicolata sacramentalmente dai riti oggettivi da lui istituiti e dalla Chiesa ben definiti, che noi peccatori siamo liberati, purificati, elevati e costituiti popolo santo, Chiesa del Dio vivente, sacerdozio regale e sacrificio a Dio gradito (1 Pt 2,9; cfr 2,4-5). Senza il rito, posto in modo valido e lecito con tutta la densità oggettiva dei suoi contenuti, l’assemblea rimane un flebile grido di salvezza e un desiderio struggente in attesa di risposta. Senza il tocco vibrante e trasformante della grazia di Cristo, attraverso la mediazione dei sacri riti, il popolo convocato è molto simile a quelle folle evangeliche, che il Signore osserva come sfinite e spossate, come pecore senza pastore (Mt 9, 36).
Si capisce allora perché il sacerdote, formato nella teologia vera e nella spiritualità autentica, sarà attento al rito, cercherà di conoscerlo in profondità, di prepararlo con cura e competenza, lo celebrerà con spirito di adorazione e di profonda pietà, lo spiegherà al popolo con letizia e spiccato zelo pastorale. Non piegherà il rito ai desideri dell’assemblea, ma eleverà l’assemblea all’altezza dei riti, non temendo l’ineffabilità del mistero e non tentando di abbassare la sua forza intrinseca, riducendo o alterando con un protagonismo indebito le espressioni sacre, che la tradizione della Chiesa ha trasmesso, purificando la sua liturgia nel crogiuolo dei secoli.
Lo sguardo colmo di venerazione al rito è la forma visibile dell’adorazione interiore e della ricerca del volto di Cristo per coglierne l’espressione della sua voce e la pregnanza dei suoi gesti salvifici.
Il rispetto e la fedeltà ai riti è l’icona più espressiva di un sacerdote che cerca il Signore e la testimonianza più efficace della centralità di Cristo nella sua vita e nel suo ministero. Ogni protagonismo umano crolla davanti al rigore di una celebrazione perfetta e conforme al diritto liturgico stabilito dalla Chiesa. Il ministro autentico sa bene che questa è la più qualificata testimonianza che egli può dare ai fedeli: essere trasparenza viva di Colui che agisce attraverso l’umiltà e la rinuncia ai propri gesti e alle proprie idee per assumere in totale fedeltà quelli di Cristo (in persona Christi), l’unico Sommo Sacerdote del culto che il Padre gradisce.
A questo punto risulta evidente che in simbiosi col rito anche il ministro assurge ad un indiscutibile primato: egli precede l’assemblea ed è pervaso da quella sovranità che Cristo Sacerdote possiede nella sua Chiesa. La sinfonia del ministro col rito è evidente nel fatto che i gesti e le parole non possono sussistere senza la persona che li compie e le pronunzia. Così rito e ministro si esigono intimamente in modo indissolubile e attualizzano insieme la presenza della stessa persona del Signore, la proclamazione della sua parola di salvezza e il compimento dei suoi gesti di grazia.
Si deve anche riconoscere che vi è il pericolo che anche il ministro non compia adeguatamente i gesti di Cristo o proclami con fedeltà le sue parole, preferendo parole e gesti di sua invenzione, ritenendoli più adatti per l’efficace impatto sull’assemblea. La cosa non è purtroppo infrequente e i danni spirituali di una creatività soggettiva pesano sulla qualità spirituale delle azioni liturgiche e sulla crescita nella fede del popolo di Dio. La tentazione di protagonismo, che talvolta inquina un’assemblea liturgica, non è estranea, anzi è ancor più ricorrente, nei sacri ministri. In tal senso si può parlare di primato del rito anche sullo stesso ministro, in quanto,
senza la dipendenza dal rito e l’esatta esecuzione di esso, il ministro smarrisce la sua funzione più specifica, quella di essere al servizio del Mistero che lo precede e lo adombra e che è garantito nell’equilibrio delle sue parti proprio dalla fedeltà alle indicazioni rituali.
In tal modo il ministro sacro non volgerà esclusivamente e permanentemente il suo sguardo sull’assemblea, pure necessario in precisi momenti della celebrazione, ma eleverà il suo sguardo innanzitutto a Dio, precedendo e attraendo in questo modo tutto il popolo. Non temerà di ricevere gli onori liturgici a lui riservati sapendo Chi rappresenta, non rifiuterà le preziose insegne che deve indossare, spogliandosi di se stesso e rivestendo Cristo, non sarà minimalista nella solennità stabilita dai riti, né abbasserà superficialmente il tono e la maestà nell’accedere all’altare e nello svolgimento dell’azione sacra. Tutto questo ritornerà ad essere costume dei sacerdoti se si coglierà il primato di Dio e il fascino del suo mistero e se si comprenderà che la pastorale vera non abbassa oltre ogni limite la liturgia al popolo, ma eleva sempre di più il popolo all’altezza della liturgia.
E’ ormai auspicabile, anzi, quanto mai urgente, considerare che il fine ultimo della pastorale è quello di mettere a contatto gli uomini con la forza della grazia, che si esplica certamente attraverso la nostra testimonianza, ma incomparabilmente di più nelle parole e nei gesti stessi che Cristo attualizza nella sacra liturgia
Ecco allora che il trinomio: assemblea, ministro e rito, in cui secondo la vulgata odierna sembra esservi un superficiale primato dell’assemblea, viene letteralmente rovesciato in: rito, ministro e assemblea. E’ chiaro tuttavia che l’uomo non deve mai separare ciò che Dio ha unito e questi tre elementi devono sempre comporsi in indissolubile cooperazione. Infatti, ognuno dei tre richiede necessariamente l’apporto reciproco: senza il ministro il rito non si attua e senza l’assemblea non ha dove operare; senza rito il ministro rimane nella sua povertà umana privo della potenza della grazia che riceve dall’alto e non può giovare in nulla all’assemblea; infine, senza rito e senza ministro che lo compie, l’assemblea rimane un’umanità desolata e peccatrice votata alla morte. Se i tre termini sono necessari e cooperanti, ciò non toglie che ciascuno abbia un grado diverso di dignità.
Chi dunque è il più grande?
Il più grande è il rito in necessaria fusione col ministro. Infatti, il rito liturgico, compiuto dal ministro, è Cristo stesso che si rende presente ed operante nell’assemblea della sua Chiesa: è il Mistero stesso nell’atto del suo compimento. Solo da Lui e non da se stessa l’assemblea riceve esistenza, energia e vita e soltanto a Lui l’assemblea deve tributare la lode, l’onore, la gloria e la potenza nei secoli dei secoli (Ap 5, 13).