LA MISTAGOGIA: DAL VISIBILE ALL’INVISIBILE – prima parte

Luca Signorelli, Comunione agli Apostoli, 1512 – Museo Diocesano di Cortona

A CURA DELLA REDAZIONE

La mistagogia ha il suo fondamento più eccelso e la sua sorgente primaria nel mistero dell’Incarnazione del Verbo, che la liturgia natalizia romana esprime con queste mirabili parole:

Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili   (prefazio I di Natale).

E ancora:

“Nel mistero adorabile del Natale, egli Verbo invisibile, apparve visibilmente nella nostra carne…” (prefazio II di Natale).

Ecco il metodo della mistagogia: dal visibile all’invisibile.

Tale regola – originale, antica e classica – fa parte della struttura intima della liturgia e perciò ne costituisce un elemento basilare, imprescindibile e perenne, senza del quale la liturgia smarrisce la sua stessa identità ontologica.

Il Prologo di san Giovanni, proclamato nella Messa del giorno di Natale, esprime in termini sublimi il metodo mistagogico adottato da Dio stesso per operare la nostra Redenzione:

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”.

 Il Verbo invisibile si rivela a noi assumendo la nostra carne visibile.

Ciò che è visibile (la carne) diventa il segno che significa e contiene ciò che è invisibile (la divinità). Per questo il Prologo si conclude con questa spiegazione:

“Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”.

L’apostolo Giovanni prosegue nella medesima logica dichiarando:

Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi – quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (Gv 1, 1-3).

In questo singolare testo emerge in tutta la sua evidenza il ruolo dei sensi (ciò che noi abbiamo udito, visto e toccato) come base certa di ogni conoscenza. Qui si coglie immediatamente l’intero complesso dei segni e dei simboli, che costituiranno l’ossatura della liturgia, il suo linguaggio più proprio e il ponte per passare dalle cose visibili al mistero invisibile.

Anche l’apostolo Paolo richiama il medesimo processo, quando nella lettera ai Romani fa’ ricorso all’analogia[1]:

“…dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità…” (Rm 1, 20).

L’apostolo agisce con perfetto stile mistagogico, quando, nel suo discorso all’areopago di Atene, conduce le menti degli ascoltatori dai segni visibili del creato e dai simboli religiosi (l’ara al Dio ignoto) all’unico vero Dio, invisibile e trascendente:

«Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa.   Poiché di lui stirpe noi siamo (At 17, 22-25).

Questo modo di procedere è già presente con una grandissima abbondanza di richiami nell’intero arco della storia della salvezza, secondo la testimonianza della Sacra Scrittura dell’Antico Testamento. Basterebbe pensare alle mirabili espressioni del libro della Sapienza:

“Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. Ma o il fuoco o il vento o l’aria sottile o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo considerarono come dei, reggitori del mondo. Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza. Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati. Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore” (Sap 13, 1-5).

Anche l’eroica madre dei fratelli Maccabei, nella sua semplicità, impartisce ai figli, nell’ora suprema del loro martirio, una perfetta catechesi mistagogica: 

“Contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi. Dio li ha fatti dal nulla” (2 Mac 7, 28).

Se la natura, come si manifesta nel creato, è il segno primordiale ed insuperabile per risalire alla contemplazione della gloria di Dio, ora, nella pienezza dei tempi, gli Apostoli hanno come referente ancor più eminente l’intera storia della salvezza, così come si è svolta nella vicenda del popolo eletto, guidato dalla misteriosa provvidenza divina verso la pienezza di Cristo, del quale essi sono i testimoni oculari. E’ la rivelazione positiva di Dio, che non abolisce la natura e l’opera del Creatore, ma la completa con la grazia del Cristo redentore. Ed è su questo piano che la mistagogia cristiana raggiunge il suo tema più specifico e compie la sua educazione più propria.

La mistagogia, dunque, riceve il suo statuto più vero e il modello più sicuro dalla predicazione degli Apostoli, che, muniti del singolare dono dell’Ispirazione, interpretano con autorità apostolica i fatti e le figure dell’Antica Alleanza, mostrando nel Cristo il senso recondito e la realizzazione piena delle Profezie bibliche. Ne sono eloquente testimonianza i principali discorsi contenuti negli Atti degli Apostoli -Pietro (At 3, 11-26), Stefano (At 7, 1-54), Paolo (At 13, 16-43) – e soprattutto l’intera Lettera agli Ebrei. Possiamo riassumere questa loro preziosa operazione mistagogica con queste parole dell’Apostolo:

 Ora, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15, 4).

 Gli apostoli tuttavia non fecero che continuare nel metodo mistagogico ampiamente adottato del Signore stesso nella sua predicazione. Si pensi alla conversazione del Risorto con i discepoli di Emmaus alla sera del giorno della risurrezione:

“E cominciando da Mosè  e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24, 27).

Qui sta il vertice e il modello sommo della catechesi mistagogica, che la Chiesa farà propria. Una istruzione che il Signore risorto prolungherà nei quaranta giorni, fino alla sua Ascensione, come attestano gli Atti degli Apostoli:

“Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio” (At 1, 1-3).

Non a caso la Veglia pasquale è presieduta fin dall’inizio dal Cero pasquale, simbolo della presenza del Risorto. L’intera storia della salvezza, annunziata dalle profezie nella prolungata liturgia della Parola, è rivisitata in modo retrospettivo, quasi ad imitazione di ciò che il Signore stesso fece nell’introdurre i suoi discepoli nel Mistero pasquale, già compiuto in Lui risorto.

E’ infatti caratteristica della mistagogia non la preparazione previa ai Misteri, ma l’approfondimento successivo ad essi, già celebrati ed operanti. Ed è ad imitazione dei quaranta giorni mistagogici inaugurati dal Signore, che la Chiesa fa’ la mistagogia proprio nel tempo pasquale, introducendo i neofiti nell’intelligenza dei Sacramenti, ricevuti nella santa notte di Pasqua.

Su questa base rivelata i Padri della Chiesa hanno assunto il metodo mistagogico, attingendo con determinazione ai grandi eventi biblici della storia della salvezza.

I Padri sono in tal senso in linea con l’esempio di Cristo, il divino mistagogo. Sono discepoli degli Apostoli e continuatori del loro metodo mistagogico, che essi hanno sviluppato ulteriormente con un amplissimo ricorso alla Sacra Scrittura e con una sorprendente dovizia di interpretazioni allegoriche.

Basti per tutti la parola di Teodoro di Mopsuestia nelle sue Omelie catechetiche:

«Ogni sacramento è l’indicazione, attraverso segni e simboli, di realtà invisibili e ineffabili. Una rivelazione e una spiegazione su tali realtà sono certamente necessarie, se qualcuno vuole conoscere la forza di questi misteri. Se ciò che accade effettivamente fosse soltanto quello che si vede fare, la spiegazione sarebbe superflua, perché basterebbe la vista a mostrarci le cose che si verificano. Ma nel sacramento si trovano i segni di ciò che avverrà (nel futuro) o di ciò che è già avvenuto (nel passato), e perciò è necessario un discorso che spieghi il senso dei segni e dei misteri».

Ed è in immediata dipendenza, continuità e coerenza con questa storia, che la liturgia classica, orientale e occidentale, nell’ epoca della sua migliore formazione e definizione (sec. IV) assume nei suoi riti, gesti e preci la logica e il metodo mistagogico, mediante il quale dalle cose visibili si risale alle realtà soprannaturali ed invisibili.

Ed ecco che la nobile solennità dei riti, celebrati nella maestà delle splendide basiliche, trasmette nel complesso dei simboli, assunti di preferenza dal contesto biblico, i contenuti salvifici, attualizzando, sotto il velo dei segni, l’opera della nostra Redenzione.

La celebrazione liturgica è intesa come segno visibile della presenza e dell’azione efficace ed invisibile di Cristo nella potenza dello Spirito: la liturgia è vista e spiegata dai Padri come storia della salvezza in atto, qui ed ora. Per questo san Leone Magno afferma:

Ciò che era visibile nel nostro Salvatore è passato nei suoi misteri  [2] .

 

[1] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Donum Veritatis, n. 10: “Contrariamente alle affermazioni di molte correnti filosofiche, ma conformemente ad un retto modo di pensare che trova conferma nella Scrittura, si deve riconoscere la capacità della ragione umana di raggiungere la verità, così come la sua capacità metafisica di conoscere Dio a partire dal creato”.

[2] San Leone Magno, Sermo 74, 2: CCL 138A, 457 (PL 54, 398).

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