LA MISTAGOGIA – seconda parte

DON ENRICO FINOTTI

La celebrazione liturgica è intesa come segno visibile della presenza e dell’azione efficace ed invisibile di Cristo nella potenza dello Spirito: la liturgia è vista e spiegata dai Padri come storia della salvezza in atto, qui ed ora. Per questo san Leone Magno afferma:

Ciò che era visibile nel nostro Salvatore è passato nei suoi misteri[1]

La successiva storia della Chiesa sarà sempre in linea con tale impostazione pur con accentuazioni diverse.

Uno sviluppo di assoluta importanza è quello offerto dalla teologia scolastico-medioevale. San Tommaso D’Aquino pone il principio dell’accesso all’ente a partire dal creato, percepito dai sensi. E’ nota la sua definizione del concetto di verità:

« Veritas: Adaequatio intellectus ad rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio intellectus et rei. » « Verità: Adeguamento dell’intelletto alla cosa. Adeguamento della cosa all’intelletto. Adeguamento dell’intelletto e della cosa»[2].

Tommaso afferma che la conoscenza umana comincia con i sensi, grazie all’esperienza sensibile (realismo gnoseologico). Il ruolo dei sensi nel processo razionale della conoscenza e l’osservazione sensoriale della realtà fisica, che ci circonda, come base di verifica e fondamento di oggettività per intraprendere un pensare certo, apporta alla mistagogia dei Padri una solida dimostrazione filosofica: ciò che i Padri hanno praticato, Tommaso lo ha dimostrato.

In ciò si vede come, sia la liturgia, sia la teologia, sono essenzialmente mistagogiche, nel senso che ambedue partono dal creato visibile, colto attraverso i sensi, per elevarsi al mistero del Dio invisibile. La Parola di Dio e i sui gesti salvifici (i Sacramenti) si rivestono della nostra carne per comunicarci in modo vero e certo, anche se inadeguato per la nostra fragilità creaturale, il pensiero di Dio e la sua azione salvifica.

Nel contesto del pensiero teologico di San Tommaso, che ha un valore perenne e dalla cui sostanza la Chiesa non potrà più retrocedere, anche il Concilio Tridentino ha ribadito a riguardo della liturgia l’antica e perenne regola della mistagogia. Nel mentre l’eresia tendeva a distruggere il valore del rito con il complesso dei suoi simboli, ereditato dall’antica Tradizione dei Padri, la Chiesa, nel Decreto sul Sacrificio della Messa al Cap. V, afferma:

“E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio”.

E nel Can. 7° del medesimo capitolo si dice:

“Se qualcuno dirà che le cerimonie, le vesti e gli altri segni esterni, di cui si serve la chiesa cattolica nella celebrazione delle messe, siano piuttosto elementi adatti a favorire l’empietà, che manifestazioni di pietà, sia anatema”.

Nel clima ammorbato dall’eresia, alla riduzione soggettiva della dottrina di Cristo, custodita dal Magistero perenne della Chiesa, corrispose la spogliazione soggettiva della ricca tradizione liturgica della Chiesa: concetti teologici e simboli liturgici sono stati accomunati dalla riduzione soggettiva propria delle ideologie imperanti dell’epoca.

L’arte barocca, nella sua migliore espressione, è la splendida manifestazione della mistagogia della Chiesa, che annunzia e celebra il Mistero, saldamente ancorato e difeso dai dogmi tridentini, mediante la geniale ed esuberante creazione dell’arte di ogni tipo (architettura, scultura, pittura, musica, ecc.) e nello splendore prezioso, complesso e mirabile dello svolgimento rituale della liturgia, soprattutto nella forma pontificale della sua celebrazione.

Si giunge infine al Concilio Vaticano II, che ripropone con determinazione la dimensione mistagogica della liturgia con un’espressione quanto mai semplice e geniale: per ritus et preces.

“…la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente..”(SC48 ).

Tale passaggio – per ritus et preces – raccoglie l’intera tradizione mistagogica della liturgia della Chiesa, affermando come i riti operano la nostra redenzione non in modo nebuloso, indefinito e soggettivo, ma entro precise coordinate stabilite dal tenore dei riti e delle preci. In tal senso si comprende come la conoscenza e la retta celebrazione dei riti e delle preci stabilite dalla Chiesa e codificate nei libri liturgici siano il tramite indispensabile per accedere ai significati e ai contenuti soprannaturali dei Misteri divini posti in atto nella celebrazione liturgica.

Da ciò deriva il carattere oggettivo della liturgia e si comprende l’antico assioma:

“Caro salutis est cardo”  (San Cipriano)

Ossia la concreta e visibile forma degli oggetti e dei gesti corporali unita a precisi termini assunti nelle preci stabilisce il profilo oggettivo e non manipolabile di un’azione liturgica, che condizione ogni presunta interpretazione soggettiva dell’azione salvifica che opera nel sacramento.

Ed é qui che subentra l’intervento della mistagogia in quanto iniziatrice e interprete dei Misteri nascosti nei santi segni.

La Dei verbum ci offre con una sintesi breve e al contempo piena la regola per un’efficace azione mistagogica, quando afferma:

“Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (DV 2).

L’accondiscendenza della mistagogia divina verso di noi è il modello di ogni mistagogo come ancora si esprime la Dei verbum:

“Con questa rivelazione infatti Dio invisibile per il suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (DV 2).

Anche il principio della nobile semplicità enunciato nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium mira a quella pulizia e verità dei segni, che, unite alla nobiltà della loro qualità ed espressione, offrono alla liturgia i simboli più conformi ad un’azione mistagogica veramente efficace per  comunicare le realtà sacre dei santi misteri:

“I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni (SC 34).

Senza il contatto, la sottomissione, la sufficiente comprensione e l’assunzione dei riti e delle preci liturgico-sacramentali il cristiano rischia di incamminarsi dentro un culto personalistico, soggettivo  ed illusorio, che finisce per generare di conseguenza una ‘fede’ e un comportamento ‘morale’ totalmente sciolto dalla conformità oggettiva col Verbo incarnato, il solo che può dare ad ogni uomo l’accesso all’unico vero Dio e garantire quel ‘culto in spirito e verità’, che esercitato quaggiù nell’oscurità della fede, sarà perfetto nella gloria immortale della visione eterna e beata del Dio Trino ed Unico.

[1] San Leone Magno, Sermo 74, 2: CCL 138A, 457 (PL 54, 398).

[2] L’espressione indica che la verità consiste nella corrispondenza, nell’accordo, tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica e concettuale. Questa concezione si ritrova ampiamente nella filosofia medioevale e specialmente in Tommaso d’Aquino. Tommaso, che riteneva la conoscenza acquisibile solo attraverso la sensibilità, rifiuta la visione della conoscenza di Agostino, che pensava che questa avvenisse tramite l’ illuminazione divina. La conoscenza degli universali però appartiene solo alle intelligenze angeliche; noi, invece, conosciamo gli universali post-rem, ossia li ricaviamo dalla realtà sensibile. Soltanto Dio conosce ante rem. La conoscenza è, quindi, un processo di adeguamento dell’anima o dell’intelletto e della cosa.

 

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