A CURA DELLA REDAZIONE
… durante l’intero arco della mia formazione in seminario sono stato condizionato, quasi inconsciamente, da alcuni luoghi comuni, ritenuti quasi dei dogmi indiscutibili e che hanno segnato il nostro modo di accostarci alla liturgia e poi di celebrarla. Cerco di esprimere questa mentalità con dei termini ideologici insistenti e ricorrenti fra noi: ‘rubricismo’, ‘formalismo’, ‘intimismo’, ‘estetismo’. Questi erano i nemici che si dovevano comunque temere per non scadere in un modo certamente sbagliato, si diceva, di celebrare … Per questo è sempre stato difficile per noi giovani sacerdoti rispettare i gesti e i testi di un rito o curare la bellezza degli abiti e degli arredi o indugiare troppo nella devozione personale … ci si sentiva minacciati dal giudizio piuttosto critico di superiori e compagni se avessimo percorso questa strada o anche solo contestato il modo ormai secolarizzato e prevalente di celebrare …
Certamente i termini ideologici sopra ricordati indicano dei difetti che possono insidiare il sacerdote nella celebrazione liturgica. In tal senso devono essere corretti. Tuttavia si deve riconoscere che con tali termini si è giunti a colpire aspetti indispensabili della liturgia che, nel giusto equilibrio, devono essere attuati come parti costitutive della stessa liturgia. Occorre distinguere tra l’osservanza precisa delle prescrizioni rubricali e l’esecuzione di esse senza cognizione e partecipazione interiore (rubricismo); tra l’attuazione nobile e fedele dei gesti liturgici e la sua esecuzione meccanica senz’anima (formalismo); tra la necessaria devozione che interiorizza le preci e i riti e un’eccessiva invasione nel rito della devozione privata (intimismo); tra la cura della qualità e sacralità degli abiti, degli arredi e dei luoghi e un’estetica fine a se stessa senza profondità teologica e spirituale (estetismo). E’ evidente che in questo contesto di interpretazioni estreme non si può realizzare una celebrazione liturgica che compone tutti questi aspetti nel loro giusto equilibrio. Inoltre una sottolineatura eccessiva del rubricismo ha portato ad una ricorrente mutazione e mostrificazione dei testi stabiliti; una critica esagerata del formalismo ha prodotto una liturgia fai da te, senza regole; una continua paura di intimismo ha svuotato il rito di ogni pausa e del silenzio adorante; infine l’accusa esagerata di estetismo ha portato alla spogliazione dei riti, ad una permanente ferialità e alla banalità delle forme e degli ambienti sacri: estetismo e pauperismo sono gli opposti estremi dell’autentica estetica liturgica.
Per rimanere nel tema di questo numero della rivista che tratta della gravità sacerdotale possiamo constatare che su questa strada ogni moto della gravità sacerdotale è estinto in quanto viene privato del suo stesso contenuto visibile, che non può rinunciare alla nobiltà del gesto, alla solennità della prece, alla profondità della devozione e alla bellezza dell’arte.
… era per noi spontaneo e del tutto acquisito che celebrare la liturgia significasse sostanzialmente saper animare un’assemblea e rendere la celebrazione gradita e piacevole, adattandoci con facilità alle diverse situazioni e attese dei fedeli presenti … essere ‘pastorali’ era il massimo obiettivo per un sacerdote e nessuna regola doveva ostacolare il rapporto spontaneo e gioioso con la gente: così si doveva fare, e questo era il modello di celebrante a noi proposto … si diceva che i riti e i testi erano certo un’indicazione, ma non dovevano essere un impedimento per una celebrazione “ viva” … (UN SACERDOTE)
Si comprende quanto sia affascinante nel postconcilio la pastoralità. Infatti il Concilio volle essere pastorale per annunziare il vangelo nel contesto del mondo odierno. Tuttavia bisogna intendere bene sia l’ambito della pastorale, sia la sua funzione. La liturgia è innanzitutto un atto di culto a Dio nel quale il popolo santo preceduto dai suoi pastori accede alla divina Maestà. E’ il volgersi corale ad Deum il movimento tipico dell’atto liturgico. Ciò implica un distogliere lo sguardo diretto dal mondo per concentrarlo su Dio e il suo mistero. Questo moto ascendente è quello primario, necessario e costitutivo di ogni atto liturgico in quanto tale. Il risvolto pastorale, cioè la sua incidenza sul popolo convocato con tutti i messaggi connessi ai simboli, ai gesti ai movimenti, ecc. propri della liturgia opera certamente e con grande efficacia, ma in modo indiretto: mentre si sta davanti a Dio e Lui si adora e si ascolta avvolti dal manto mistico della preghiera e di azioni soprannaturali, scende sull’assemblea santa il frutto della grazia e l’annunzio della salvezza. La forza della pastorale liturgica sta nel teocentrismo e nella estraneazione dal mondo per entrare alla divina presenza. Invece appena si imbocca l’antropocentrismo e ci si fissa sull’uomo e sulla gestione diretta dell’azione cultuale con una forte carica di protagonismo si provoca il collasso del genio stesso della liturgia e si perde il contenuto proprio dell’azione liturgica che è lo star con Dio, l’ascoltarlo con fede, l’adorarlo con intensità e l’abbandonarsi umile alla sua azione salvifica. La pastorale liturgica è certamente una pastorale vera, ma con caratteristiche proprie: si opera sul popolo estraniandosi da esso e volgendo lo sguardo a Dio; proprio la cura dello star in atto contemplativo produce il miglior impatto educativo sui fedeli e l’intera assemblea; più si eleva la mistica più si incide sui cuori e sul popolo; più si rispetta il mistero e i suoi simboli e più essa interessa e colpisce anche i distratti. La forza della liturgia non sta tanto nell’ars operandi quanto nell’ars adorandi e la testimonianza dei grandi celebranti si misura sulla loro santità, ossia della loro sintonia con i misteri ben celebrati. (San Giovanni Bosco ebbe a dire di non aver mai visto in vita un sacerdote a celebrare la S. Messa con tanta devozione come il Beato Antonio Rosmini). Diverso è invece il ruolo della pastorale che precede e segue la liturgia. Infatti questa deve assumere il carattere catechistico di ammaestramento e di introduzione didattica ai riti, oppure di mistagogia ai riti stessi dopo la loro celebrazione. Ma questa, pur necessaria, è una pastorale liturgica, per così dire, minore. La maggiore è la celebrazione stessa che tuttavia depone ogni preoccupazione di didattica diretta e ogni considerazione sociologica per concentrarsi unicamente nello star davanti a Dio, in Dio e con Dio. Allora tutti entrano nel sacro silenzio e ognuno comprende che la nube divina è discesa sull’altare: lì il bambino, il genitore e l’anziano, il grande e il piccolo sono affratellati dall’interiore esperienza mistica dei santi misteri resi attuali e operanti.
IL BEATO ANTONIO ROSMINI E LA LITURGIA n. 23 (anno 7 – numero 2 – giugno 2014)