DON ENRICO FINOTTI
1. Il dono della riforma liturgica del Vaticano II per la vita della Chiesa
Le scelte conciliari e la conseguente riforma della liturgia furono fonte di un grande rinnovamento spirituale e furono accolte universalmente con grande adesione ed entusiasmo.
I frutti di grazia non tardarono a manifestarsi lì dove l’applicazione della riforma liturgica fu coerente e fedele col magistero della Chiesa, che la guidava con saggezza e la garantiva con la sua autorità.
È ciò che il papa Benedetto XVI ha affermato nel discorso prenatalizio alla Curia romana il 23 dicembre 2005:
“Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio”[1].
Nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis del 22 febbraio 2007, il Papa riconosce insieme ai Padri sinodali l’indiscusso valore della riforma liturgica conciliare:
“I Padri sinodali hanno constatato e ribadito il benefico influsso che la riforma liturgica attuata a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II ha avuto per la vita della Chiesa. Il Sinodo dei Vescovi ha avuto la possibilità di valutare la sua ricezione dopo l’Assise conciliare. Moltissimi sono stati gli apprezzamenti. Le difficoltà ed anche taluni abusi rilevati, è stato affermato, non possono oscurare la bontà e la validità del rinnovamento liturgico, che contiene ancora ricchezze non pienamente esplorate. Si tratta in concreto di leggere i cambiamenti voluti dal Concilio all’interno dell’unità che caratterizza lo sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture”[2].
I Padri sinodali, inoltre, non mancano di indicare quale sia l’unico modo consentito per intendere la riforma liturgica, quello che riconosce la continuità storica e teologica con la liturgia della Chiesa di tutti i tempi:
“Guardando alla storia bimillenaria della Chiesa di Dio, guidata dalla sapiente azione dello Spirito santo, ammiriamo, pieni di gratitudine, lo sviluppo, ordinato nel tempo, delle forme rituali in cui facciamo memoria dell’evento della nostra salvezza. Dalle molteplici forme dei primi secoli, che ancora splendono nei riti delle antiche Chiese di Oriente, fino alla diffusione del rito romano; dalle chiare indicazioni del Concilio di Trento e del Messale di san Pio V fino al rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II: in ogni tappa della storia della Chiesa la Celebrazione eucaristica, quale fonte e culmine della sua vita e missione, risplende nel rito liturgico in tutta la sua multiforme ricchezza. La XI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, svoltasi dal 2 al 23 ottobre 2005 in Vaticano, ha espresso nei confronti di questa storia un profondo ringraziamento a Dio, riconoscendo operante in essa la guida dello Spirito Santo” [3].
Benedetto XVI testimonia il senso esatto della tradizione e della continuità nell’intento dei Padri conciliari riguardo alla riforma liturgica, affermando:
“Culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme fonte da cui promana la sua virtù (SC 10), la Liturgia con il suo universo celebrativo diventa così la grande educatrice al primato della fede e della grazia. La Liturgia, teste privilegiato della Tradizione vivente della Chiesa, fedele al suo nativo compito di rivelare e rendere presente nell’hodie delle vicende umane l’opus Redemptionis, vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legittima progressio, lucidamente esplicitato dalla Costituzione conciliare al n. 23. Con questi due termini, i Padri conciliari hanno voluto consegnare il loro programma di riforma, in equilibrio con la grande tradizione liturgica del passato e il futuro. Non poche volte si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione include essa stessa in qualche modo il progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce” [4].
2. Necessaria distinzione tra riforma liturgica vera – come è stabilita dalla Chiesa – e abusi liturgici
Su queste inequivocabili dichiarazioni del magistero della Chiesa è evidente che si devono distinguere con cura i documenti autentici della liturgia riformata dalle loro interpretazioni e applicazioni abusive.
E, mentre l’editio typica dei riti liturgici deve essere accolta con umile obbedienza e gioiosa fiducia nella Chiesa che l’ha promulgata, gli abusi, invece, devono essere individuati, diffidati e respinti.
Purtroppo una diffusa e protratta mancanza di vera formazione liturgica espone molti a confondere la liturgia autentica stabilita dalla Chiesa con la sua realizzazione sommaria ed erronea, invalsa oramai nel costume celebrativo di molte comunità.
In particolare deve essere contrastata quella mentalità sempre più diffusa che tende a rigettare, senza alcun discernimento, le forme abusive insieme a quelle autentiche.
In tal modo si colpisce, a causa degli errori, l’insieme della riforma conciliare e addirittura le stesse dichiarazioni del Concilio e dei Sommi Pontefici successivi.
È evidente che con questo modo di procedere si incrina gravemente il senso della Chiesa e il valore del suo magistero.
Se, infatti, il magistero di un solo Concilio o anche quello un solo Pontefice viene rigettato, tutti i Concili e tutti i Pontefici vengono esposti al giudizio privato, dimenticando l’aspetto soprannaturale del magistero della Chiesa: la conseguenza è la messa a rischio della fiducia religiosa che i fedeli devono poter avere verso di esso per esercitare l’obbedienza autentica di figli della Chiesa.
Stabilite queste coordinate fondamentali è certamente utile verificare le cause di un fenomeno palese: il crollo della liturgia nel postconcilio.
Se la liturgia rinnovata è una fonte di benedizione per moltissimi fedeli semplici e umili comunità ecclesiali, è pur vero che il postconcilio ha anche esposto i fedeli stessi a forme indebite di culto, a esagerazioni o creazioni soggettive non più conformi a ciò che era stabilito dalla Chiesa.
L’esemplificazione è qui inutile, essendo un fenomeno conosciuto e alquanto dibattuto.
Non pochi documenti del magistero se ne sono occupati e fin dall’inizio lo hanno contrastato.
«Molti sacerdoti si permettono di modificare gesti e testi liturgici, per seguire la loro inclinazione, il loro gusto personale, i desideri di qualche gruppo di fedeli. Si mutilano le traduzioni debitamente approvate dalle conferenze episcopali e confermate dalla Sede Apostolica. E si legittima questo modo di fare sostenendo che è necessario fare delle esperienze in un ambiente vivo, che occorre attuare il più rapidamente possibile le direttive di semplicità, di verità, di intelligibilità date dal Concilio. Si afferma che tutto non può essere fatto dagli organismi centrali, e che occorre far posto anche alle legittime aspirazioni del popolo cristiano. Ci si sforza perfino, talvolta, di trovare negli altri documenti conciliari argomenti per insistere sul diritto ad un’espressione creatrice in materia liturgica da parte di una comunità vivente […]. Possiamo tutti ben comprendere che la riforma liturgica non può farsi nell’arbitrio, nel disordine, nella fretta sconsiderata; ma che essa, al contrario, richiede ordine, obbedienza e pazienza» (Consilium ad exsequendam, Lettera circolare ai presidenti delle Conferenze Episcopali, 21 giugno 1967, in EnchVat, II, n. 1410).
3. Come valutare gli abusi liturgici e argomentare su di essi?
Gli abusi liturgici sono sempre esistiti e non è conforme a verità mitizzare il passato, quasi che esso sia stato indenne da pratiche abusive, e proporre di conseguenza un ritorno al precedente regime liturgico come terapia certa per superare ogni abuso.
“Che cosa di nuovo e insolito, o fratelli, patisce ai nostri tempi il genere umano, che non abbiano patito i nostri padri anzi possiamo noi affermare di soffrire tanto e tanti guai quali dovettero soffrire loro? Eppure troverai degli uomini che si lamentano dei loro tempi, convinti che solo i tempi passati siano stati belli. Ma si può essere sicuri che se costoro potessero riportarsi all’epoca degli antenati, non mancherebbero di lamentarsi ugualmente. Se, infatti, tu trovi buoni quei tempi che furono, è appunto perché quei tempi non sono più i tuoi” (Discorsi di sant’Agostino vescovo, in Lit. delle Ore, Uff. di lett., mercoledì della XX settimana del Tempo Ordinario).
Infatti, basterebbe una semplice indagine storica, per rilevare come – purtroppo – l’abuso abbia caratterizzato, in differenti forme e intensità, anche altre epoche.
Il campionario contenuto nei decreti tridentini contro gli abusi ne è eloquente esempio.
“Per non lasciare spazio ad alcuna superstizione (i Vescovi) cureranno con un editto, minacciando le pene relative, che i sacerdoti non celebrino se non nelle ore stabilite e nella celebrazione delle messe non introducano riti o cerimonie e preghiere diverse da quelle approvate dalla Chiesa e ammesse da un uso consueto e lodevole” ( Concilio Ecumenico Tridentino, Sessione 22a, 17 settembre 1562, in COD, p. 737).
Non basta quindi avere dalla Chiesa un buon rito, ma è necessario celebrarlo bene, con competenza e profondità spirituale e quindi con efficacia anche pastorale.
Non si risolve il problema semplicemente mutando il rito, ma intraprendendo una seria formazione sia teologica, sia relativa all’ars celebrandi.
Se nelle nostre parrocchie si celebrasse nel rito riformato con lo stesso stile e la stessa cura che vediamo oggi usare da chi ricorre al precedente rito, sono certo che apparirebbe con maggiore evidenza la continuità (R. Pane, Liturgia creativa?, pp. 8-9).
Chi ben conosce il novus ordo e chi lo celebra come è stabilito nel messale, celebra una Messa bella, degna, sacra.
Ma se al rito stabilito dalla Chiesa si sostituisce l’invenzione e la soggettività creativa del momento, la colpa non è della Chiesa, né del novus ordo, ma dell’incompetenza o anche della presunzione, magari in buona fede, dei ministri che celebrano.
Si potrebbe inoltre constatare, che l’uso della lingua parlata e il rivolgersi verso il popolo, costituiscono stimoli notevoli a un maggior controllo dell’arte del celebrare.
Infatti, pronunziare le preci nella lingua del popolo, implica un saper parlare bene, formulare con espressione i termini e comunicare efficacemente i contenuti.
La lingua parlata non consente una recitazione formale, veloce e incolore, ma esige correttezza sintattica e proprietà di linguaggio, mancando le quali non tarderebbe a farsi udire la critica e il disagio di chi ascolta.
La lingua latina ‘poteva’ più facilmente favorire una recitazione formalistica, i cui contenuti il popolo non poteva controllare.
Invece la celebrazione ad populum espone i gesti del sacerdote, l’espressione del suo volto, lo sguardo dei suoi occhi, il modo di trattare il sacramento, di elevarlo, di deporlo, di assumerlo, di purificare i vasi sacri, ecc. al giudizio e al controllo dell’intera assemblea.
Da questo punto di vista la riforma liturgica porta un deterrente ulteriore all’abuso e uno stimolo più efficace a ben celebrare.
Ciò di fatto avviene nel caso di tutti quei sacerdoti, che percepiscono questa loro esposizione al popolo e sono coscienti della loro responsabilità nel celebrare in modo edificante.
Si potrebbe dire che il novus ordo è più che mai intollerante alla mediocrità, ed esige una seria preparazione e una profonda e vigile spiritualità da parte del clero.
Se queste vengono a mancare, il sacerdote ha oggi meno “difese” rispetto al passato ed è più esposto alla valutazione del popolo circa i suoi atti liturgici … si pensi, per esempio, alla messa letta, detta sottovoce quasi nella sua integralità.
La accresciuta possibilità dei fedeli di entrare nella comprensione del rito impone quindi la necessità di una maggiore perizia nella celebrazione da parte dei sacerdoti.
[1] Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana, in OR, 23 dicembre 2005, pp. 5-6.
[2] In OR del 14 marzo 2007, inserto supplementare, p. 11.
[3] Ibid.
[4] Benedetto XVI, Discorso al Pontificio Istituto Liturgico, in OR, 7 maggio 2011, p. 7.