4. E’ possibile individuare alcune cause che stanno alla radice degli attuali abusi liturgici?
Ciò che potrebbe sorprendere è il fatto che proprio quando la liturgia ebbe ricevuto una così solenne tematizzazione e ‘consacrazione’ a coronamento degli sforzi secolari del movimento liturgico e in una così solenne assise come un Concilio Ecumenico, si ritrovi, nella ormai nota crisi postconciliare, a percorrere sentieri così precari e a produrre frutti talora così sconcertanti.
«Quo vadis Liturgia? […] Non di rado si resta ammirati di fronte a iniziative in campo liturgico, scritti, fotografie, conferenze, per le quali vengono in mente le parole di Giobbe: ‘mi si rizzarono i peli del corpo’ […]. Dove vai, liturgia, o piuttosto, dove la state portando, liturgisti e pastoralisti? La via della riforma sicura, luminosa, ampia, spaziosa è quella indicata dalla Chiesa e dal Supremo Pastore; ogni altra via è falsa» (A. Bugnini, La riforma liturgica, p. 256).
Ebbene le cause che stanno a monte di quello che ho chiamato paraconcilio, analizzate in precedenza, paiono essere le medesime del crollo della liturgia nel periodo postconciliare:
- la discussione, intesa come forma mentis propria del Concilio;
- la pastorale, pure intesa come una forma mentis intrinseca al Concilio;
- il dissenso dal Magistero della Chiesa nell’applicazione della riforma liturgica;
- la crisi dell’adorazione e del senso del sacro.
Sembra quindi opportuno riprendere innanzitutto le due formae mentis, discussione e pastorale, considerandone l’influenza in ambito liturgico.
5. Il perdurare della forma mentis ‘discussione’ mantiene la liturgia in un cantiere sempre aperto a mai definito: in che modo?
Il Concilio, per se stesso, come abbiamo visto in precedenza, ha suscitato nella Chiesa una forma mentis, che è divenuta abituale nel mentalità del popolo di Dio, quella di aprirsi a discutere i problemi in vista di nuove prospettive per la Chiesa nel mondo odierno.
Tale atteggiamento ha investito pure la liturgia nell’intento di una sua necessaria e legittima riforma.
Ciò avvenne puntualmente attraverso gli organi, i tempi e le modalità stabiliti dalla Chiesa.
Tuttavia, promulgata la Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium e, successivamente, editi i libri liturgici ufficiali, la discussione avrebbe dovuto propriamente cessare o comunque assumere i limiti e le prerogative proprie di una situazione diversa da quella in cui la riforma era in fieri.
Si trattava di orientare la discussione non più a definire le forme rituali, ora stabilite, ma a spiegarne le motivazioni e diffonderne l’attuazione.
Invece si continuò a discutere come prima, come se la Chiesa non avesse scelto e i suoi libri liturgici costituissero delle pure linee orientative, prive di qualunque aspetto tassativo e vincolante.
Si ritenne quindi conforme a verità esporre la liturgia a un regime di permanente discussione, di ulteriore ricerca e di continua sperimentazione.
“Poiché il concilio ha inteso compiere opera di aggiornamento, sembrano intendere costoro, l’aggiornamento continuo e irrefrenabile è il dogma da osservarsi con religioso ossequio dell’intelletto e della volontà, anche quando esso va ben oltre le intenzioni dei padri conciliari. C’è infatti un’insignificante differenza fra il concilio e i suoi presunti epigoni: in quel caso l’aggiornamento fu opera dei padri conciliari solennemente riuniti insieme al Santo Padre sotto l’ispirazione dello Spirito santo; nel caso degli epigoni, invece, ogni singolo diacono, prete o liturgista che sia, si sente autorizzato ad aggiornare ad libitum, sotto l’ispirazione della propria presunzione” (R. Pane, Liturgia creativa?, pp. 14-15).
Così essa fu abbandonata alla ‘dittatura degli esperti’.
Il popolo di Dio si trovò espropriato di quella sicurezza e di quella continuità nella tradizione che tanto erano solide nell’esercizio del culto cattolico.
Certamente il tempo del Concilio valorizzò la grande quantità delle ricerche storiche, teologiche e spirituali che valenti studiosi e eminenti periti portarono nel dibattito conciliare.
Ciò fu un dono straordinario e un’indispensabile fonte per la riforma liturgica.
Ma voler tenere il cantiere sempre aperto, anzi erigere a norma questa apertura, senza prevedere il raggiungimento di una sintesi stabile e di una forma definita da consegnare al popolo di Dio, portò confusione e aprì la strada a una creatività senza alcun limite.
Ne nacque così l’illusione che tutto dovesse essere permanentemente rivisitato alla luce della complessità storica emersa dagli studi e dalle ricerche.
La liturgia però, in questo modo, venne tolta dal controllo dei Pastori e consegnata al giudizio delle diverse e discordanti scuole teologiche.
Ma soprattutto il popolo di Dio, pastori e fedeli, si trovò privato del senso della liturgia come sua legittima ‘proprietà’.
Essa, invece gli venne espropriata e gestita dalla categoria dei ‘competenti’.
Su questa strada i fedeli furono costretti a percorrere altre vie, più congeniali alla loro pietà, non potendo stare al passo né con gli studi e i dibattiti liturgici, né con le permanenti variazioni rituali che ne conseguivano.
Quella divaricazione tra liturgia e pietà popolare, che intervenne per altre cause storiche nel medioevo latino, si riproporrebbe oggi qualora la liturgia perdesse la sua identità, la sua forma stabile e la sua continuità nel tempo e fra le diverse comunità ecclesiali.
È questo il motivo dell’insorgenza di tante forme alternative alla liturgia che escono da disparati gruppi e movimenti, ed espressioni soggettive della pietà, che portano divisione e vanificazione di progetti pastorali seri.
Inoltre non potendo più confrontarsi con un rito dai contorni definiti, stabile nelle sue parti e nelle sue preci, non vi è più una base sicura di riferimento per la formazione liturgica, che diviene vaporosa, incolore e inconcludente.
Infatti non si riconosce più con chiarezza la liturgia nella sua identità oggettiva: non si riesce più a distinguerla da un qualsiasi atto soggettivo di culto espresso da gruppi o da singoli.
Celebrarla per molti oggi significa semplicemente fare un qualsiasi genere di preghiera, che è tanto maggiormente considerata quanto più è stata creata qui e ora dagli operatori del momento.
La definizione canonica della liturgia, «che è ritenuta l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo, nel quale per mezzo di segni sensibili viene significata e realizzata, in modo proprio a ciascuno, la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto di Dio pubblico integrale» (Can. 834 § 1) é semplicemente sconosciuta.
Ancor meno è tematizzata l’affermazione successiva del medesimo canone che dice: «Tale culto allora si realizza quando viene offerto in nome della Chiesa da persone legittimamente incaricate e mediante atti approvati dall’autorità della Chiesa» (Can. 834 § 2).
Non si ritiene assolutamente che l’ambito liturgico possa essere definito e individuato in criteri e limiti oggettivi, come invece determina il codice di diritto canonico: da queste definizioni è impossibile prescindere, se si vuole conoscere veramente quale sia e a quali condizioni si attui il culto di Cristo e della sua Chiesa.
Si nota inoltre che questo clima di discussione è prevalentemente radicato in tutti coloro – sacerdoti, religiosi e laici – che possono esibire una particolare preparazione liturgica: quelli che magari hanno titoli accademici, che hanno frequentato corsi formativi, che si aggiornano negli studi e sulle riviste liturgiche, ecc.
Infatti tutti costoro, messi a contatto con la grande ricchezza degli studi liturgici, valorizzata e impiegata dal Concilio, continuano in questo clima indubbiamente fascinoso.
Occorre dire con chiarezza, che non si vuole qui estinguere o frenare la ricerca, tuttavia è necessario accettare serenamente le avvenute scelte della Chiesa in ordine alla rinnovata forma liturgica.
Ed ecco allora verificarsi uno strano fenomeno: un sacerdote liturgista sembra essere esposto in misura maggiore di un semplice sacerdote alla manipolazione del culto; il gruppo liturgico di una parrocchia sente di dover cambiare qualche cosa nei riti per non riproporre, come si dice, la ‘fissità rituale’; la gestione della liturgia da parte dei ‘competenti’ è diventata più problematica di quella dei ‘semplici’ che celebrano come è stabilito.
La frequenza ai corsi di formazione liturgica rischia dunque di produrre dei manipolatori, anziché intelligenti e umili servitori della liturgia.
Simili e altre contraddizione rivelano i danni di un approccio alla riforma liturgica in termini di permanente discussione e di costante e libera creatività.
Certamente non mancano bravi e competenti liturgisti attraverso il cui lavoro la Chiesa riceve un indubbio e continuo beneficio, ma essi non fanno notizia e il loro valore non è noto.
È allora fuori discussione che gli studi liturgici debbano continuare, le ricerche proseguire fino alle loro ultime conseguenze: l’entusiasmo della riscoperta di tante fonti cristiane deve essere tenuto in onore, la Chiesa deve camminare e il Regno di Dio deve poter irrompere sempre più nella storia degli uomini.
Ma tale ricerca deve sempre avvenire nella Chiesa e con la Chiesa, nella fedeltà interiore ed esteriore al suo magistero, nell’obbedienza convinta e umile alle disposizioni e alle leggi liturgiche stabilite, senza indulgere con impazienza e insofferenza, sia ad archeologismi superati, sia a creazioni pericolose e incerte.
La fedeltà ai riti, quali oggi la Chiesa li ha stabiliti, deve risplendere nei pastori e nei fedeli, nei teologi, nei liturgisti e nei pastoralisti e fra gli animatori delle nostre parrocchie.
Non vi è una libertà maggiore per gli esperti rispetto agli altri fedeli, ma vi è un’unica obbedienza che pone tutti a contatto con le fonti liturgiche della grazia – gerarchia e fedeli, sapienti e semplici -.
L’unica liturgia è patrimonio di tutti e richiede che da tutti nella Chiesa sia rispettata e amata.