I Rapporto tra la retta interpretazione del Concilio Vaticano II e la retta interpretazione della riforma liturgica
- La critica al Vaticano II coinvolge anche la critica alla riforma liturgica
L’odierno dibattito sulla liturgia, sia a livello dottrinale, sia a livello celebrativo, trova ancora una pesante remora nelle contrastanti interpretazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II. Infatti, sembra sempre più accreditata e diffusa la critica alla riforma liturgica non solo riguardo alla sua erronea applicazione postconciliare – come é doveroso – quanto piuttosto riguardo agli stessi principi ispiratori assunti dal Magistero conciliare riguardo alla liturgia e soprattutto si nota una crescente perplessità verso la stessa editio typica dei libri liturgici promulgati dai Sommi Pontefici a norma dei decreti del Concilio Vaticano II. Si intende quanto sia teologicamente diversa e delicata la critica diretta ai documenti autentici del Concilio e agli atti autentici dei Sommi Pontefici postconciliari, rispetto alla critica rivolta a studi teologici e liturgici discutibili e a realizzazioni pratiche abusive dei vigenti libri liturgici.
- In un clima di attrito e di equivocità non c’é formazione liturgica efficace
In un contesto ecclesiale così incerto e pervaso da forti attriti tra le parti non é possibile realizzare una formazione liturgica del clero e dei fedeli che sia veramente efficace sul piano dottrinale, spirituale e pastorale. Infatti, se manca una solida e condivisa teologia liturgica non si coglie l’identità della stessa liturgia e il valore del diritto liturgico che la configura nell’orizzonte indelebile del dogma della fede e della tradizione perenne della Chiesa; se manca il senso del mistero e il carattere sacramentale dei riti liturgici viene meno la spiritualità e la contemplazione mistica dell’evento di grazia; se subentra il soggettivismo privato degli operatori liturgici si perde l’oggettività dei riti stabiliti dalla Chiesa e si sostituisce la guida autorevole e pastorale della Chiesa con una creatività individuale effimera e priva dell’effetto soprannaturale della grazia divina.
- La retta interpretazione del Concilio offre la retta interpretazione della liturgia
Questo stato precario di pensieri e di intenti deve trovare adeguata risoluzione nel più vasto quadro della retta interpretazione del Concilio Vaticano II, dal quale anche la riforma liturgica ha ricevuto il suo statuto e la sua legittimità. E’ bene ribadire che la retta interpretazione del Concilio non significa una recezione indifferenziata e acritica che non valuta con cura il diverso grado di autorità dei documenti autentici del Concilio e non sa distinguere e riconoscere gli elementi dottrinali dai decreti disciplinari soggetti alla variazione delle contingenze storiche in cui furono deliberati. In tal senso i decenni trascorsi dopo il Concilio hanno portato ad una sedimentazione di giudizi e la stessa applicazione della riforma liturgica ha ricevuto da ulteriori documenti magisteriali una più mirata definizione, suscitata anche da studi più approfonditi e dall’esperienza celebrativa concreta delle comunità cristiane. E’ nel rilievo di questo ulteriore itinerario ecclesiale che trova la sua giustificazione il processo di ‘riforma della riforma’, che attesta una costante della vita della Chiesa: Ecclesia semper reformanda.
- Il Credo del popolo di Dio come testo della perenne professione della fede
Un documento di grande valore magisteriale per la retta interpretazione del Concilio é la Solenne Professione di Fede pronunziata dal papa Paolo VI davanti alla basilica vaticana il 30 giugno 1968 a conclusione dell’Anno della fede, da lui indetto per celebrare il XIX centenario del martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo[1].
Alcune osservazioni mettono in luce la sua importanza e il suo ruolo rispetto al Concilio che si era appena concluso.
II Rapporto tra il Credo niceno-costantinopolitano
e il Credo del popolo di Dio di Paolo VI
Il Credo, pronunziato da Paolo VI, «riprende sostanzialmente il Credo di Nicea, il Credo dell’immortale tradizione della santa Chiesa di Dio»[2]. Si impone così un rapporto del tutto singolare tra il primo Concilio di Nicea e l’ultimo, il Vaticano II: come a Nicea fu formulato per la prima volta il Credo, completato nel successivo Concilio di Costantinopoli (Credo niceno-costantinopolitano), così dopo la serie dei 21 Concili ecumenici il Sommo Pontefice riprende l’antico Credo di Nicea e lo espone «con qualche sviluppo, richiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo» in un atto magisteriale di notevolissimo rilievo, che, «senza essere una definizione dogmatica propriamente detta»[3] rappresenta un solenne insegnamento del magistero ordinario e universale del Sommo Pontefice. Il fatto é veramente singolare in quanto mai avvenuto nella storia della Chiesa, che ha sempre pronunziato il Credo niceno-costantinopolitano come esposizione sufficiente, completa ed intangibile del dogma della fede. Infatti ripetutamente nei primi grandi Concili ecumenici si affermava: «… nessuno può proporre, redigere o formulare una fede diversa da quella definita a Nicea dai santi padri assistiti dallo Spirito Santo» (Concilio Efesino – 431); «Questo sapiente e salutare simbolo della divina grazia sarebbe già sufficiente alla piena conoscenza e conferma della fede» (Concilio di Calcedonia – 451); «Questo simbolo ortodosso della grazia di Dio basterebbe per una perfetta conoscenza e conferma della fede ortodossa» (Concilio Costantinopolitano III – 680). Se il Papa ritenne necessario un simile intervento significa che le vicende in cui versava la Chiesa nell’immediato postconcilio presentavano degli elementi preoccupanti riguardo all’integrità del depositum fidei, che il Papa espone nell’omelia che introduce la Solenne Professione di Fede che sotto riportiamo[4]. Certo Paolo VI non intende in alcun modo superare il Credo niceno-costantinopolitano, che rimane sovrano e solenne nel rito della Messa ed dovrebbe sempre essere cantato con giubilo e fierezza dal popolo di Dio, ma lo vuole difendere, riproporre e approfondire con maggior precisione e determinazione in un momento veramente critico per la fede dopo il Concilio Vaticano II. Il Credo del popolo di Dio diventa in tal modo un solenne e grave sigillo posto ai documenti autentici del Vaticano II e un criterio di certa e retta interpretazione dell’intero complesso dottrinale del Concilio stesso. Nello stesso modo che tutti i precedenti Concili ecumenici ebbero nel Credo neceno-costantinopolitano la tessera dell’ortodossia e l’attestato della continuità nella perenne Tradizione apostolica, anche il Concilio Vaticano II dovrà essere inteso in assoluta continuità dottrinale con la fede immacolata della Chiesa che risplende imperitura nell’antico Simbolo.
[1] PAOLO VI, Omelia del 30 giugno 1968, in EnchVat, III, nn. 537-566.
[2] Idem, in EnchVat, III, n. 539.
[3] Idem.
[4] Idem, in EnchVat, III, n. 540.