A CURA DELLA REDAZIONE
Il Credo viene introdotto nella Messa in tre posizioni diverse del rito: dopo il Vangelo nella liturgia romana, nei riti di presentazione delle offerte nella liturgia bizantina, dopo l’Anafora e prima dell’orazione domenicale presso i Visigoti nella Spagna[1]. Queste tre scelte liturgiche offrono pregi diversi e sottolineature interessanti, che esprimono quella legittima diversità di usi finalizzati ad una più completa e profonda espressione dell’unica fede.
L’uso nella Messa romana (il Credo dopo il vangelo) mette in evidenza l’adesione di fede alla parola proclamata e consegna ai fedeli la sintesi dell’intero dogma della fede che non può mai essere ridotto alle sue parti.
La singolarità dei misteri celebrati nelle varie feste richiede la loro composizione nel tessuto dell’intera professione della fede. Questo senso della pienezza, infatti, è il segreto dell’equilibrio della dottrina cattolica, che sa comporre ogni singolo asserto di fede nella totalità dell’insieme (et et) a differenza dell’eresia che afferma in modo selettivo e talvolta esclusivo aspetti parziali dell’intero dogma della fede (aut aut). La posizione del Credo dopo il vangelo trova riscontro nei vangeli, nella sequenza dialogica tra Cristo e Marta:
Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo» (Gv 11, 25-26).
Il Signore suscita la fede di Marta, ne riceve una sincera adesione e procede all’evento di grazia risuscitando il fratello Lazzaro.
Allo stesso modo l’assemblea liturgica istruita da Cristo nella liturgia della parola, vi assente con la formula del Credo e si dispone al sacrificio sacramentale in cui si compie il mistero della redenzione.
L’uso nella liturgia orientale (il Credo all’offertorio) mette in luce la fede come dono offerto a Dio affinché il sacrificio di Cristo non solo sia valido, ma anche fruttuoso per chi lo offre. E’ appunto l’obbedienza di fede che rende gradito il sacrificio a Dio, perché il contenuto vero del sacrificio è l’obbedienza alla volontà di Colui al quale si offre. Proclamare il Credo sulla mensa dell’altare sopra i mistici doni significa unire la nostra adesione di fede a quell’obbedienza totale e perfetta che Cristo offre in sacrificio al Padre. In qualche modo qui la professione di fede è analoga al dono dei pochi pani che precedettero il grande miracolo della loro moltiplicazione. Senza tale disponibilità e oblazione di fede non può salire al cospetto di Dio un sacrificio che sia anche fruttuoso per l’offerente.
Anche il costume antico (oggi scomparso) di proclamare il Credo al cospetto dei santi Misteri, dopo l’anafora e prima del Pater nei riti di comunione, può richiamare quei passi evangelici in cui colui che già è stato miracolato si prostra in adorazione davanti al Signore Gesù con una commossa professione di fede nella sua divinità, come si può vedere nel racconto del cieco nato:
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi (Gv 9, 35-38).
Come la professione di fede del cieco risanato segue all’evento miracoloso del dono della vista, così la professione di fede dopo il canone e davanti alla SS. Eucaristia presente sull’altare è conseguente all’evento del sacrificio divino e manifesta lo stupore adorante davanti alla maestà del Salvatore, che ci ha salvati.
Le varie localizzazioni del Credo trovano riscontro e giustificazione nei fatti evangelici dove la professione di fede talvolta precede e altre volte segue l’evento di grazia. Le diverse posizioni del Credo nella Messa, quindi, hanno tutte un particolare significato e ciascuna contribuisce a suo modo ad arricchire il medesimo mistero, sempre insondabile. Per questo la Chiesa ama la varietà dei riti come espressioni molteplici dell’unica fede.
[1] RIGHETTI, vol. III, p. 294