LA VEGLIA DELL’ASSUNTA – parte prima

Assunzione di Maria, Tiziano (particolare) Venezia Chiesa dei Frari, 1516 -1518

 

DON ENRICO FINOTTI

 

La fede perenne della Chiesa dichiara:

Maria concepì certamente senza vergogna, partorì senza  dolore e di qui migrò senza corruzione, in conformità alla parola dell’angelo, anzi di Dio per mezzo dell’angelo, affinché fosse provato che lei è piena, e non colma solo a metà, di grazia e affinché Dio suo Figlio adempisse fedelmente l’antico mandato che un tempo fece conoscere, e cioè prevenire con onore il padre e la madre, e affinché la carne verginale di Cristo che fu assunta dalla carne della vergine madre, non differisse totalmente dalla sua[1].

COME POSSIAMO INGINOCCHIARCI SE IN CHIESA HANNO TOLTO GLI INGINOCCHIATOI?

A CURA DELLA REDAZIONE

Togliere dalla chiesa gli inginocchiatoi sarebbe come togliere le sedia in una sala da pranzo. Infatti le altre pose corporali, previste dalla liturgia, quali star in piedi,star seduti e muoversi in corteo, sono comuni a qualunque altro raduno sociale. Soltanto lo stare in ginocchio è esclusivo e tipico di un atto di culto, richiama quindi alla preghiera e alla relazione col Dio trascendente. Il fedele che si inginocchia e ancor più un popolo che si inginocchia affermano la sacralità dell’azione e del luogo dove si celebra. Togliere il segno visibile e permanente della prostrazione, ossia gli inginocchiatoi, infligge un colpo mortale all’identità e alla sacralità delle nostre chiese. Il fatto che si voglia sostituire un tale gesto con lo stare inchinati, in relazione all’uso liturgico degli orientali, non risolve il problema, perché, da un lato non fa parte della tradizione liturgica latina, che ha pieno diritto ad essere riconosciuta e rispettata; dall’altro lato nelle sacre Scritture si parla in modo esplicito ed inequivocabile dello stare in ginocchio. Basterebbe pensare all’inno della lettera agli Efesini: «Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,10-11). Oppure alle note parole di san Paolo: « Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3, 14). Il Signore stesso si inginocchiò, soprattutto nel momento supremo della sua passione, quando si prostrò pure a terra in una intensa e drammatica orazione.

L’EUCARISTIA SECONDO LUTERO: DONO O SACRIFICIO? (seconda parte)

 

FABIO BERTAMINI

  1. La dottrina della giustificazione in Lutero

 Per comprendere la dottrina di Lutero riguardo il tema eucaristico è indispensabile conoscere alcuni tratti essenziali del suo pensiero teologico. Il punto di partenza della riflessione del Riformatore, come è noto, è dato dall’«esperienza della torre»  (1513). Ritirato nella torre del castello, mentre meditava il primo capitolo della Lettera ai Romani, Lutero ebbe un’improvvisa illuminazione: l’uomo nella sua condizione esistenziale si trova in una incapacità radicale di compiere il bene e di acquisire meriti perciò la giustizia di Dio in rapporto all’uomo, non può essere intesa in senso retributivo ma solo attributivo

GLI AVVISI PARROCCHIALI SPESSO SONO ECCESSIVI E NOIOSI. SI DEVONO PROPRIO FARE?

A CURA DELLA REDAZIONE

Le rubriche permettono che nei riti di congedo, prima di impartire la benedizione, possano essere dati brevi avvisi (OGMR 90). L’indicazione è della massima sobrietà, sia nel valutare l’effettiva necessità, sia nel richiamare la loro brevità. Gli avvisi parrocchiali non devono diventare una regola, ma un’eccezione e le comunicazioni devono essere brevi e incisive. Spesso, invece, tali avvisi diventano una regolare e prolissa esposizione, non raramente priva anche di uno stile che rispetti la sacralità e la sobrietà della liturgia. Gli avvisi, se intesi come sempre necessari e regolari, provocano una caduta del clima contemplativo, che dovrebbe rimanere come alone spirituale, sia nell’assemblea che si scioglie. L’aula della chiesa infatti deve conservare il silenzio sacro per consentire ai fedeli di proseguire a livello individuale la meditazione e la preghiera. La comunicazione fraterna e quindi anche il luogo proprio per trasmettere gli avvisi parrocchiali è il sagrato o l’atrio. Qui si devono trovare le modalità più opportune ed incisive per dare informazioni sulla vita pastorale della comunità cristiana. Se non si distinguono gli ambienti si finisce per sacrificare in modo indebito proprio lo spazio riservato alla liturgia, efficace incontro col mistero che trasforma, eleva e che rende possibile una fraternità vera, radicata su base soprannaturale. Senza il primato del mistero, accolto, contemplato ed assunto interiormente, ogni comunicazione reciproca decade in un superficiale e fragile rapporto filantropico, che non attinge sufficientemente alla forza propria del Sacramento ricevuto e non adeguatamente interiorizzato. Alla luce di questa considerazione gli operatori liturgici dovranno valutare seriamente il momento adeguato per gli avvisi parrocchiali e saper offrire con tatto spirituale comunicazioni rispettose dei valori insopprimibili, propri dell’azione liturgica e della sua piena efficacia educativa. Dovrebbe essere sempre più condiviso che la celebrazione liturgica e la chiesa non sono il contenitore di ogni attività parrocchiale, ma il luogo proprio della preghiera, del silenzio orante, della meditazione dell’incontro anche personale con Dio (come recita il Salmo “la mia casa è casa di preghiera”): dimensione che deve essere quanto più possibile favorita. In tal senso sembra opportuno superare sempre più la prassi degli avvisi, in nome di forme alternative quali il foglietto settimanale, ecc., educando i fedeli ad un minimo impegno, ad interessarsi di quello che succede nella loro parrocchia, senza volere a tutti i costi raggiungerli con estenuanti e ripetitive comunicazioni, che qualche volta li annoiano e indispettiscono. È  infine del tutto assodato che gli avvisi non possono essere dati dall’ambone, riservato esclusivamente alla proclamazione della Parola di Dio.

CARATTERE SACRIFICALE DELLA DIVINA EUCARISTIA 1. IL RIFIUTO DELLA NOZIONE DI “SACRIFICIO”

FABIO BERTAMINI

Vogliamo porre l’attenzione su alcune tendenze presenti nella riflessione teologica contemporanea tese a relativizzare o a rigettare il carattere sacrificale della divina Eucaristia. Cercheremo di andare alle radici di questo atteggiamento e di analizzarlo alla luce  della Rivelazione. Si tratta, infatti, di un punto quanto mai essenziale per la vita della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, coerentemente a tutta la Tradizione Apostolica, non ha tralasciato di ricordare che il sacrificio eucaristico è «fonte e apice» di tutta la vita cristiana. In esso i fedeli  «offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa così tutti, sia con l’offerta che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica»[1].

LITURGIA E IDEOLOGIA

 

A CURA DELLA REDAZIONE

… durante l’intero arco della mia formazione in seminario sono stato condizionato, quasi inconsciamente, da alcuni luoghi comuni, ritenuti quasi dei dogmi indiscutibili e che hanno segnato il nostro modo di accostarci alla liturgia e poi di celebrarla. Cerco di esprimere questa mentalità con dei termini ideologici insistenti e ricorrenti fra noi: ‘rubricismo’, ‘formalismo’, ‘intimismo’, ‘estetismo’. Questi erano i nemici che si dovevano comunque temere per non scadere in un modo certamente sbagliato, si diceva, di celebrare … Per questo è sempre stato difficile per noi giovani sacerdoti rispettare i gesti e i testi di un rito o curare la bellezza degli abiti e degli arredi o indugiare troppo nella devozione personale … ci si sentiva minacciati dal giudizio piuttosto critico di superiori e compagni se avessimo percorso questa strada o anche solo contestato il modo ormai secolarizzato e prevalente  di celebrare … 

LE DIDASCALIE – NECESSARI EMENDAMENTI PER RIQUALIFICARE L’AZIONE LITURGICA – terza parte

 

DON ENRICO FINOTTI

Necessari emendamenti per una riqualificazione dell’azione liturgica nella sua bellezza ed efficacia. 

7. L’Omelia

L’omelia è il grande, centrale, sufficiente, tradizionale e, possibilmente unico, commento nella celebrazione liturgica. E’ in essa e mediante essa che i Padri facevano la mistagogia ai riti, celebrati con grande dignità e rispetto: questa dimensione mistagogica deve essere oggi ricuperata. Ma la mistagogia implica che i riti e le preci precedano la loro spiegazione e si impongano da soli all’attenzione del credente. Dopo la loro attuazione vi è il graduale commento esplicativo nell’omelia. E’ esattamente l’opposto di ciò che avviene con l’uso attuale dei commenti nella celebrazione, che inverte il procedimento, riducendo il rito ad una conferenza o a una scuola catechistica: si rivela quindi necessario ritornare all’antico costume dei Padri, restituendo sacralità e dignità ai riti e impostando l’intervento omiletico del celebrante al modo dell’antica mistagogia.

LE DIDASCALIE NELLA PRASSI CELEBRATIVA – seconda parte

 

“I riti splendano per nobile semplicità, siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni, siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC34).

Alla luce di queste splendide ed inequivocabili parole è possibile ritrovare la giusta impostazione ed operare i necessari emendamenti per una riqualificazione dell’azione liturgica nella sua bellezza ed efficacia.

Alcune considerazioni sul costume abusivo, ormai largamente invalso, offrono argomenti per una necessaria riflessione:

RUOLO E PERICOLI DELLE DIDASCALIE NELLA PRASSI CELEBRATIVA – prima parte

DON ENRICO FINOTTI

Nella riforma liturgica del Vaticano II si prevede, fra gli altri, il servizio del commentatore e si dà la possibilità di intervenire con didascalie in vari momenti della celebrazione:

“Anche i ministranti i lettori, i commentatori, e i membri della schola cantorum svolgono un vero ministero liturgico” (SC 29).

“Si cerchi anche di inculcare in tutti i modi una catechesi più direttamente liturgica, e negli stessi riti siano previste, quando è necessario, brevi didascalie da farsi con formule prestabilite o simili, dal sacerdote o dal ministro competente, ma solo nei momenti più opportuni” (SC35/3).

Queste monizioni furono certo opportune negli anni immediatamente successivi al Concilio, quando si doveva introdurre i fedeli al nuovo modo di celebrare. Infatti, si trattava di spiegare le novità e dare, anche durante lo svolgimento dei riti, le necessarie indicazioni sui gesti da compiere e le parole da dire.