L’ORIENTAMENTO NELLA LITURGIA E LA PRASSI ATTUALE…

DON ENRICO FINOTTI

Assistiamo nelle nostre comunità cristiane ad un fenomeno ‘globalizzante’ per il quale la celebrazione liturgica sembra essere diventata l’unica manifestazione della vita della parrocchia e in essa entra con larghezza ogni genere di attività pastorale, a tal punto che l’edificio stesso della chiesa assomiglia ad un locale multiuso dove ogni iniziativa viene accolta senza alcun discernimento.

Si intende che con questa prassi l’orientamento ad Deum nell’esercizio del culto viene alquanto compromesso se non addirittura del tutto dimenticato.

L’IDENTITÀ DELLA LITURGIA


A CURA DELLA REDAZIONE

 

Qual è allora lo scopo della liturgia? E’ quello dell’adorazione. All’uomo che si prostra con umiltà davanti alla divina Maestà Dio risponde con la santificazione della sua creatura: due movimenti ascendente e discendente che non possono mai mancare e devono comporsi nel dovuto equilibrio. Nella liturgia domina l’orientamento di tutti ad Patrem e in essa il rapporto reciproco tra i fratelli non è mai diretto (faccia a faccia), ma laterale: insieme, ma rivolti al Signore con lo sguardo a Lui, nel canto della sua lode, nell’ascolto della sua parola, nell’adesione al suo Sacrificio.

Ogni altra attività invece si relaziona in modo diretto con gli altri, con le cose e le infinite vicende della vita profana, pur sempre nell’orizzonte religioso attinto dall’orazione.

L’ORIENTAMENTO NEL CULTO

 

DON ENRICO FINOTTI

La liturgia è essenzialmente un atto di culto a Dio. Lo afferma con chiarezza sia la definizione di liturgia già proposta dall’enciclica Mediator Dei di Pio XII

La sacra Liturgia è il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all’Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra –

sia la successiva definizione di liturgia ripresa dal Vaticano II (SC7)

Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo … in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra -.

Come si può costatare la dimensione cultuale è geneticamente costitutiva della natura stessa della liturgia. Elevare tutto il popolo ad un rapporto diretto con Dio, il più possibile libero da ogni distrazione, è l’intento e la meta dell’azione liturgica. L’orientamento dello spirito, della mente e del cuore ad Deum è quindi atteggiamento imprescindibile e condizione primaria ed essenziale per porre un atto liturgico che sia conforme alla sua natura più vera e profonda.

Col termine orientamento, dunque, si intende riferirsi a questo sguardo interiore ed esteriore a Dio, che nella tradizione liturgica, orientale e occidentale, si esprime con modalità gestuali differenti, ma concordi nell’unico obiettivo: ricercare e contemplare il volto di Dio.

Data la costituzione dell’uomo di anima e corpo, non è possibile non conformare all’orientamento interiore dello spirito la posizione, gli atteggiamenti e i gesti corporei. Infatti, pretendere di adorare con la sola anima senza coinvolgere anche il corpo è porsi in uno stato innaturale, costringendo l’anima a subire una continua frizione con le distrazioni esteriori che frenano e feriscono il moto dello spirito nell’atto di volgersi a Dio. Dunque nella celebrazione liturgica l’anima e il corpo insieme, in mutua simbiosi, devono orientarsi al Signore:

Tutto il complesso del culto che la Chiesa rende a Dio deve essere interno ed esterno. È esterno perché lo richiede la natura dell’uomo composto di anima e di corpo; perché Dio ha disposto che «conoscendoLo per mezzo delle cose visibili, siamo attratti all’amore delle cose invisibili» (cfr. Missale Romanum, Prefazio della Natività)…(Mediator Dei)

Se è vero che tutta la vita del cristiano si deve svolgere sotto lo sguardo di Dio davanti alla sua presenza e nell’obbedienza alla sua legge e in tal senso si possa parlare dell’intera vita come ‘liturgia’, culto a Dio gradito, tuttavia, soltanto nei momenti propri del culto l’orientamento a Dio è diretto, mentre in ogni altra azione è sempre indiretto, in quanto si deve porre attenzione agli altri, alle cose, alle situazioni, al mondo. Possiamo allora rilevare che il volgersi in modo diretto ed esclusivo al Signore, lasciando ogni altra distrazione, segna il passaggio da una attività qualsiasi a quella specifica del culto, sia pubblica che individuale.

Poiché Dio è invisibile si rende necessaria la mediazione dei simboli che richiamino Lui, la sua misteriosa presenza e la sua azione salvifica. Sono i segni del sacro che si devono distinguere da tutto il complesso delle creature, che elevano certamente al Signore, ma in modo indiretto e riflesso. Non distinguere sufficientemente il sacro dal profano incrina non poco l’orientamento liturgico, anzi lo estingue in quanto lo priva del suo scopo: distogliere lo sguardo dalle creature per elevarlo al Creatore. Senza tali segni le cose del mondo diventano opache ed equivoche costituendo una distrazione dal soprannaturale, che invece i segni sacri indicano in modo diretto e immediato. In realtà è appunto il sacro autentico (ossia conforme alla vera fede) che interpreta rettamente il profano e ne svela la sua origine e finalità riconducendo ogni cosa a Colui che l’ha creata. Senza questa necessaria mediazione del ‘sacro’ – dopo il peccato originale – le creature si oscurano e il loro fascino ci distoglie con facilità dal loro Autore ed esse stesse perdono la loro identità. Infatti, come ben si esprime il Concilio Vaticano II, “La creatura senza il Creatore svanisce” (GS 36).

Ecco allora il motivo per cui l’orientamento nel culto ha sempre espresso movimenti e segni corporei ben noti con lo scopo di innalzare lo spirito al mistero divino: elevare gli occhi e le braccia al cielo, volgersi al sole nascente verso oriente o verso Gerusalemme, guardare all’altare e alla croce, contemplare il SS. Sacramento e rimirare una sacra immagine, ecc. Senza tali gesti la liturgia perde la sua forza e la sua visibilità e non potrà più manifestare quella sua intrinseca coralità, che la configura come un atto pubblico e comune del popolo di Dio.

IL TEMPO ORDINARIO 4. Il tempo dei Santi

DON ENRICO FINOTTI

1.   Il “dies natalis”

Ogni giorno la Chiesa riporta nel martirologio il “dies natalis” dei suoi Santi, ossia il giorno della loro nascita al Cielo.[1] E’ questo, secondo la tradizione della Chiesa, il criterio scelto per stabilire ordinariamente la data della festa o memoria di un Santo[2].

Questa norma affonda le sue radici nella Pasqua settimanale e annuale, “dies natalis” del Signore stesso, perchè nella sua Pasqua Egli risorse da morte e inaugurò la nuova vita dei risorti. E’ questo il “giorno del Signore”, che la Chiesa celebra ogni domenica e nella solennità di Pasqua.

IL TEMPO ORDINARIO 3. Il tempo della missione

A CURA DELLA REDAZIONE

 3. Il tempo della missione

Nei primi sei mesi dell’anno liturgico, circa da dicembre a maggio, la liturgia raccoglie tutte le principali fasi del mistero di Cristo, dall’attesa messianica dei Padri dell’Antico Testamento, all’effusione con potenza dello Spirito Santo.

Nei successivi sei mesi, da giugno a novembre, vien celebrato il mistero della Chiesa, frutto del mistero pasquale di Cristo.

In questo programma annuale la Chiesa raccoglie i suoi figli e li chiama ad un forte impegno soprattutto nel primo periodo, per immergerli annualmente nella meditazione e nella grazia del mistero di Cristo in modo da elevarli e continuamente introdurli nella vita del Signore, fatto uomo, morto e risorto per noi.

IL TEMPO ORDINARIO 1. Il mistero della vita pubblica del Signore 2. Il tempo della Chiesa

A CURA DELLA REDAZIONE

“A differenza delle altre fasi dell’anno liturgico, che celebrano i vari momenti della storia della salvezza e ne prendono la colorazione, questo tempo si svolge di domenica in domenica senza particolari celebrazioni, a eccezione di alcune feste di devozione o di santi. Esso è ritmato dalla domenica e ci introduce in modo speciale nel mistero della Chiesa. Sono questi i due elementi che lo caratterizzano”.[1] 

E’ opportuno mettere in luce alcune evidenze relative al mistero del tempo “per annum”.

IL CUORE DEL CREDO : “ET INCARNATUS EST”

DON ENRICO FINOTTI

La notte e il giorno di Natale prevedono un rito del tutto singolare e unico nell’Anno Liturgico.[1] Durante il canto del Credo i ministri e tutto il popolo si inginocchiano e adorano il mistero dell’Incarnazione proprio quando si canta l’articolo et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est.[2] Il momento, se celebrato convenientemente, imprime un profondo senso di preghiera e suscita una straordinaria commozione spirituale, al punto da costituire quasi l’apice delle Messe natalizie. Per la verità questo articolo del Credo è sempre circondato da una speciale venerazione, infatti, la liturgia prevede che sempre nel pronunziarlo o cantarlo vi sia l’inchino profondo da parte di tutti i presenti, ministri e fedeli.[3]

IL SIMBOLO NICENO-COSTANTINOPOLITANO E IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI OGGI

Le disposizioni della recente riforma liturgica romana di poter scegliere liberamente una o l’altra delle due formule del Simbolo (apostolico e niceno-costantinopolitano) pone alcuni problemi di natura rituale e prospetta dei possibili effetti collaterali:

1.  La recita in modo continuato (cioè in directum) dei due Simboli provoca confusione nei fedeli che non sono in grado di ritenere facilmente due formule così simili e al contempo diverse. In passato i fedeli recitavano il Credo apostolico, appreso dal catechismo e usato nell’orazione privata, mentre il Credo niceno-costantinopolitano era conosciuto solo in canto e in latino da quei fedeli che frequentavano la Messa principale della domenica. Dopo la riforma liturgica le cose si sono invertite: i fedeli hanno memorizzato il Credo niceno-costantinopolitano dovendolo recitare ogni domenica nella loro lingua, mentre hanno dimenticato in genere il Credo apostolico.

IL “CREDO” NELLA MESSA

La discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli nel giorno di Pentecoste – miniatura medioevale

 

 

A CURA DELLA REDAZIONE

Il Credo viene introdotto nella Messa in tre posizioni diverse del rito: dopo il Vangelo nella liturgia romana, nei riti di presentazione delle offerte nella liturgia bizantina, dopo l’Anafora e prima dell’orazione domenicale presso i Visigoti nella Spagna[1]. Queste tre scelte liturgiche offrono pregi diversi e sottolineature interessanti, che esprimono quella legittima diversità di usi finalizzati ad una più completa e profonda espressione dell’unica fede.

L’uso nella Messa romana (il Credo dopo il vangelo) mette in evidenza l’adesione di fede alla parola proclamata e consegna ai fedeli la sintesi dell’intero dogma della fede che non può mai essere ridotto alle sue parti.