IL DIRITTO LITURGICO: “PER RITUS ET PRECES” – quarta parte

DON ENRICO FINOTTI

Il Concilio Vaticano II ha avuto il merito di condensare in una espressione lapidaria e ormai nota – per ritus et preces (SC 48) – l’intero complesso del diritto liturgico nelle sue due componenti essenziali: i riti e le orazioni, i gesti e le parole.

Il termine ritus, infatti, raccoglie una vastissima molteplicità di elementi propri del linguaggio simbolico: gesti, espressioni e movimenti; abiti, insegne, oggetti, simboli e libri; luoghi, edifici ed ambienti sacri; tempi, memorie, feste e solennità; ecc.

Il termine preces, si declina in un ventaglio amplissimo di modalità diverse del linguaggio verbale: orazioni, lezioni, didascalie e saluti; canti, acclamazioni, musiche e suoni; il sacro silenzio; ecc.

Non è marginale il collegamento tra l’espressione per ritus et preces e l’altra «con eventi e parole intimamente connessi» (DV 2). L’analogia afferma la continuità della storia della salvezza nell’oggi della celebrazione liturgica. Gli eventi, connessi alle parole con cui Dio operò fin dall’inizio nella storia della nostra Redenzione, continuano ancor oggi con la medesima modalità («con eventi e parole» – per ritus et preces) nei riti e nelle preci delle celebrazioni liturgiche della Chiesa.

IL DIRITTO NELLA LITURGIA DELLA CHIESA parte terza

DON ENRICO FINOTTI

Il diritto liturgico, proprio della liturgia cattolica, si rivela nel suo esordio nelle parole di sant’Agostino, che afferma: Christus sacramentis numero paucissimis, observatione facillimis, significazione praestantissimis,societatem novi populi colligavit [1]. Cristo Signore, istituendo pochissimi sacramenti, molto facili da celebrare e quanto mai adeguati a ciò che devono significare, ha posto le basi fondamentali e sufficienti per l’intero complesso del diritto liturgico della Chiesa per tutti i secoli.

La Chiesa poi attualizza la salvezza quando celebra i sacramenti unendo la parola agli elementi (acqua, olio, pane, vino): accedit verbum ad elementum et fit sacramentum[2]. Cosa significa questa unione della parola all’elemento se non la realizzazione del sacramento secondo le leggi stabilite dal diritto liturgico, che definisce ciò che san Tommaso d’Aquino chiama la materia, la forma e il ministro relativi ad ogni azione liturgica, che intenda essere efficace in ordine alla Grazia e valida per ascendere alla Maestà divina?

IL DIRITTO LITURGICO NELLA RIVELAZIONE seconda parte

Dio parla a Mosè dal roveto ardente – Sandro Botticelli  1482 – Cappella Sistina, Vaticano

 

DON ENRICO FINOTTI

Ma il diritto liturgico è una creazione romana, o, come oggi si dice, un’inculturazione operata dalla Chiesa di Roma, oppure ha radici più remote?

Il diritto liturgico ha le sue origini nella stessa Rivelazione, anzi è radicato fin dalla Creazione. Il diritto liturgico insomma è stabilito da Dio stesso che consegna all’uomo il modo giusto di adorarlo e di rendergli un culto gradito ed efficace.

IL DIRITTO LITURGICO – CANONE O ANAFORA?

Cosimo Rosselli – Ultima Cena 1482 – particolare

 

 DON ENRICO FINOTTI 

Prima parte: canone o anafora?  

La più importante tra tutte le orazioni (eucologie) liturgiche è la prece eucaristica, nella quale e mediante la quale si compie sacramentalmente nel tempo il mistero della nostra Redenzione. Il sacrificio incruento della Croce, infatti, si attua nel cuore di questa grande prece ed è questo il motivo che la eleva ad una dignità eccelsa e la circonda di tanta venerazione e cura in tutti i secoli.

Nella liturgia romana l’unica prece sempre in uso fino al Vaticano II è il Canone Romano e ancor oggi è, fra le altre di nuova composizione, quella più eminente ed occupa il primo posto.

Il termine latino Canone significa regola e precisamente regola di azione (Canon actionis), ossia norma da seguire per elevare a Dio un culto conveniente e per realizzare un complesso di azioni rituali conformi e degne del Sacrificio sacramentale istituito e comandato dal Signore.

IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE NEL GIORNO DI PENTECOSTE

 

A CURA DELLA REDAZIONE

La celebrazione della Confermazione nel giorno stesso di Pentecoste è certamente l’ideale, ma questa coincidenza è da noi rara. Talvolta il sacramento è celebrato in feste per niente adatte al mistero suo proprio e si sente il disagio. Cosa dire?

 E’ bene fare una premessa ricordando le famose parole di Tertulliano: “Ogni giorno è del Signore, ogni ora e ogni tempo è buono per il battesimo: la differenza riguarda la solennità, non la grazia” (Tertulliano, Sul battesimo, 19, 1-3).

Come la notte di Pasqua è, secondo l’antica tradizione della Chiesa, la sede più opportuna per conferire i sacramenti dell’Iniziazione cristiana e in particolare il battesimo, così il giorno di Pentecoste è quello più consono per impartire la Confermazione ai fanciulli già battezzati fin dalla nascita. Ciò è espresso proprio nel rituale vigente della Confermazione, quando nell’interrogazione rivolta ai cresimandi si dice: Credete nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e che oggi, per mezzo del sacramento della Confermazione, è in modo speciale a voi conferito, come già gli Apostoli nel giorno di Pentecoste? Il giorno di Pentecoste è quindi il giorno storico nel quale si compì quell’evento di grazia che è la discesa con potenza dello Spirito Santo e che viene reso attuale per ciascuno mediante il sacramento della Confermazione. La Pentecoste è la festa naturale e la cornice più appropriata per la celebrazione della Confermazione in quanto vi è la perfetta corrispondenza tra il ricordo del mistero pentecostale e la sua attuale realizzazione nell’evento sacramentale celebrato.

LA VEGLIA DI PENTECOSTE

A CURA DELLA REDAZIONE

La Veglia di Pentecoste sembra trovare un consenso crescente, ma succede di tutto con totale creatività: si va da una celebrazione, ad uno spettacolo, ad una conferenza, a delle testimonianze, ecc. Cosa ci offre oggi la liturgia della Chiesa?

 Una raccomandazione ricorrente in vari libri liturgici e documenti della Chiesa è quella relativa alla Veglia di Pentecoste, fatta ad immagine della Veglia pasquale e celebrata nelle ore serali della vigilia. Le indicazioni della Chiesa sono esplicite:

“Sul modello della Veglia pasquale, si introdusse nelle diverse chiese la consuetudine di iniziare con una veglia altre solennità: tra queste primeggiano il Natale del Signore e la Pentecoste”[1]“…Significativa importanza ha assunto, specie nella chiesa cattedrale ma anche nelle parrocchie, la celebrazione protratta della Messa della Vigilia, che riveste il carattere di intensa e perseverante orazione dell’intera comunità cristiana, sull’esempio degli Apostoli riuniti in preghiera unanime con la Madre del Signore…”[2].

IL TABERNACOLO – LA NORMATIVA VIGENTE parte terza

 

DON ENRICO FINOTTI

Dopo il Concilio Vaticano II la disposizione liturgica del tabernacolo è condizionata da due scelte specifiche: la celebrazione della Messa verso il popolo e la ragione del segno. Sulla base di queste due condizioni si comprendono le normative vigenti che definiscono il posto per la custodia della santissima Eucaristia.

a. E’ evidente che il tabernacolo sulla mensa dell’altare, soprattutto se monumentale, non consente di celebrare rivolti al popolo. La diffusione universale di questo modo di celebrare ha portato prevalentemente alla separazione dei due luoghi liturgici. In alcuni casi il tabernacolo di piccole dimensioni continua ad essere mantenuto sull’altare, soprattutto in cappelle esigue.

b. L’altro motivo è così espresso: In ragione del segno, è più conveniente che il tabernacolo in cui si conserva la SS. ma Eucaristia non sia collocato sull’altare su cui si celebra la Messa (OGMR 315). La ragione del segno viene ulteriormente spiegata nelle premesse al Rito della Comunione fuori della Messa e Culto eucaristico (RCCR6) dove, riferendosi alla Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium n.7, si afferma: “Nella celebrazione della Messa sono gradualmente messi in evidenza i modi principali della presenza di Cristo nella Chiesa. E’ presente in primo luogo nell’assemblea stessa dei fedeli riuniti in suo nome; è presente nella sua parola, allorché si legge in chiesa la Scrittura e se fa il commento; è presente nella persona del ministro; è presente infine e soprattutto sotto le specie eucaristiche: una presenza, questa, assolutamente unica, perché nel sacramento dell’Eucaristia vi è il Cristo tutto e intero, Dio e uomo, sostanzialmente e ininterrottamente. Proprio per questo la presenza di Cristo sotto le specie consacrate viene chiamata reale, non per esclusione, come se le altre non fossero tali, ma per antonomasia. Ne consegue che, per ragion del segno, è più consono alla natura della sacra celebrazione che sull’altare sul quale viene celebrata la Messa non ci sia fin dall’inizio, con le specie consacrate conservate in un tabernacolo la presenza eucaristica di Cristo: essa infatti è il frutto della consacrazione, e come tale deve apparire.

IL SENSO TEOLOGICO DEL TABERNACOLO – seconda parte

DON ENRICO FINOTTI

L’identità e il ruolo del tabernacolo eucaristico non possono attingere soltanto ad una indagine storica, ma è necessaria soprattutto una riflessione teologica. Le basi teologiche, infatti, sono quelle che possono mutare, emendare o perfezionare, sia le scelte storiche del passato, sia quelle della prassi liturgica attuale. Senza teologia eucaristica, infatti, si è facilmente esposti o all’archeologismo o al funzionalismo pastorale.

L’altare e il tabernacolo – a livello di principio – sono inseparabili. Questa affermazione, a prima vista, potrebbe creare difficoltà, ma, alla luce di una serena argomentazione si comprenderà la verità.

L’altare è il luogo santo sul quale si compie in modo sacramentale il Mistero pasquale della nostra Redenzione. In modo simultaneo nel cuore della Prece Eucaristica si attualizza la Presenza del Signore, il suo atto sacrificale e la sua forma di cibo e bevanda. Presenza Sacrificio e Convito sono tre aspetti indissolubili e sincronici del grande Mistero che con la Consacrazione è donato alla Chiesa.

IL TABERNACOLO – La storia (prima parte)

DON ENRICO FINOTTI

Il Concilio Vaticano II offre il criterio previo ad ogni intervento di riforma nella Liturgia quando afferma:

Per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della Liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale (SC 23).

Anche riguardo al tabernacolo per la custodia della santissima Eucaristia è necessario percorrere questa triplice indagine per impostare su solide basi il significato e la funzione di questo importante luogo liturgico.

  1. La storia del tabernacolo.

La conservazione, l’adorazione e la comunione alla santissima Eucarestia al di fuori della celebrazione del Sacrificio sono sempre state presenti nella prassi liturgica della Chiesa. Questa affermazione oggi potrebbe suscitare una immediata perplessità e reazione. Bisogna allora intendersi bene ed argomentare con precisione. Certamente la custodia pubblica e solenne, come i riti del culto eucaristico (esposizione, benedizione, processioni, ecc.) sono maturati nei secoli ed hanno uno sviluppo storico ben definito. Tuttavia il fatto che l’Eucarestia sia sempre stata conservata, intimamente adorata e frequentemente assunta anche fuori della celebrazione è inconfutabile. Conservazione, adorazione e comunione fuori della Messa, sono, quindi, elementi originali, insiti nelle radici stesse della liturgia e rilevabili nell’esperienza cultuale della Chiesa fino dalle sue prime manifestazioni. La santissima Eucaristia, infatti, veniva consegnata ai diaconi per gli assenti e i fedeli stessi, laici ed eremiti, la portavano con sé nelle loro dimore per cibarsene frequentemente.

QUALI SONO LE COMPONENTI DI UN RITO, CHE SI DEVE INTENDERE PER RITO SACRO?

 

A CURA DELLA REDAZIONE

Sento frequentemente parlare di riti, ma non ho mai approfondito il tema. Chiedo: quali sono le componenti di un rito, che si deve intendere per rito sacro?

L’argomento richiederebbe un vasto e impegnativo trattato, che non può trovare spazio in una risposta come è questa. Si può tentare tuttavia di riassumere le componenti di un rito sacro in questo modo: parole, gesti, abiti, arredi, luoghi e tempi. In questi sei elementi potrei in qualche modo raccogliere l’intera complessità rituale dei riti liturgici.

* Parole: la parola all’interno del rito si declina in molteplici espressioni, quali: il silenzio, la parola detta sottovoce, la parola proclamata ad alta voce e la parola cantata. I ministri ordinati e le scholae lectorum et cantorum, ne dovrebbero essere gli interpreti qualificati. Anche il suono delle campane e dell’organo sono strumenti correlati di indubbio valore, ormai accreditati dall’esperienza celebrativa della Chiesa.