IL LATINO NELLA LITURGIA

A cura della Redazione  –  6 maggio 2018

Il nostro insegnante di liturgia è del parere che le raccomandazioni del Concilio Vaticano II riguardo al latino siano state un compromesso per ottenere il voto unanime dei Padri conciliari, ma che in realtà oggi ci si debba attendere un graduale ripensamento e superamento di queste affermazioni conciliari…?     (un seminarista)

Chi legge con attenzione e competenza i testi conciliari a riguardo del latino e del canto gregoriano noterà forse con sorpresa che si tratta di affermazioni precise e sicure quali attestazioni di un comune sentire nella Chiesa. L’uso della lingua latina costituisce la norma nella liturgia (SC 36) e con altrettanta determinazione si aprono prospettive più larghe nell’uso delle lingue volgari (SC 54). Anche il primato del canto gregoriano è proclamato con decisione, pur ammettendo, alle condizioni stabilite, il canto popolare religioso (SC 116). Il linguaggio impiegato dai Padri e la fermezza degli asserti non rivelano il disagio e la fatica proprie di altre espressioni, frutto di dibattito e quindi con formulazioni di compromesso.

Del resto il compromesso nelle formule dottrinali ha anche una funzione positiva, che ha consentito, nello sviluppo del dogma e nell’opera dei Concili, di trasmettere la sostanza di fondamentali verità, senza elidere totalmente altri aspetti correlati, parziali e integrativi di asserti teologici che sono complessi, soggetti a ulteriore maturazione e a maggior esplicitazione nei secoli. L’elaborazione accurata delle classiche definizioni dogmatiche non è estranea ad una sana ed equilibrata logica di compromesso linguistico, che in tal senso afferma la trascendenza della verità divina, pur nell’intento di enuclearne il nocciolo oggettivo e impegnativo per la fede.

Occorre perciò evitare di cadere in quella ostilità tra lettera e spirito del Concilio, che già il papa Benedetto XVI denunciava nel suo famoso discorso natalizio alla Curia Romana (2005). Il Concilio infatti dichiara nella lettera dei suoi documenti la volontà di continuare nell’uso del latino nella liturgia e per quanto riguarda il canto gregoriano ne fa’ un elogio sommo mai fatto nei precedenti Concili ecumenici. Sulla base di questa lettera si deve interpretare lo spirito del Concilio, il quale non può che essere in coerente sintonia con ciò che la lettera dei documenti autentici afferma. Ogni altra ipotesi o illazione porta fuori del pensiero della Chiesa e ci spinge in interpretazioni ideologiche, che divaricano da ciò che lo Spirito intese dire alla Chiesa mediante il Concilio.

LA ‘GRAVITÀ SACERDOTALE’ SECONDO IL BEATO ANTONIO ROSMINI – seconda parte

Don Enrico Finotti  –  5 maggio 2018

 

Nella seconda parte della XI Conferenza sui doveri ecclesiastici  il Rosmini indugia sulla gravità esteriore del sacerdote, distinguendo aspetti diversi che concorrono nella composizione  armonica di una personalità sacerdotale veramente degna della sua altissima dignità e dei compiti specifici del suo sublime ministero.

Il grande Roveretano sviluppa la sua analisi con acume, precisione e completezza, cogliendo la gravità sacerdotale nei suoi tratti visibili più essenziali: 1. Gravità nelle parole; 2. Gravità nei gesti e nel portamento; 3. Gravità nelle vesti; 4. Gravità nelle operazioni.

 Gravità nelle parole

 Quanto poi alla gra­vità esteriore, noi dicevamo, che ella deve ab­bellire tutte le parole e i gesti e le vestimenta e le opere del sacerdote.

E in prima, sono le nostre parole sempre cosi gravi e così mature come a noi si con­viene? Se v’ha parte, che più dell’altre debba esser sacra al Signore nel corpo del sacerdote, ella è certo la bocca, le labbra e la lingua, pe­rocché con queste parti appunto il ministro di Dio esercita tutte le più sublimi funzioni del suo ministero. La bocca del sacerdote è santi­ficala   dalle   tremende   parole   che quotidianamente egli proferisce all’altare, e dal corpo e dal sangue di Cristo, di cui ella rosseggia. Quel­la bocca è destinata da Dio strumento di salute e di perdizione, perocché da essa escono quelle parole divine, che legano e slegano le anime dai peccati, e che annunziano la sentenza di Dio stesso, di grazia o di condanna.

Le labbra de’ sacerdoti custodiscono la scien­za, e sono depositarie della legge, e ad esse è commesso di ammaestrare le nazioni e di con­vertire il mondo…

E non è il sacerdote incombenzato di esercitare in terra colla sua lingua l’ufficio, che hanno gli Angeli in cielo, di cantare dinanzi al trono di grazie, che l’Altissimo collocò ne’ nostri ta­bernacoli, le lodi del Creatore? …

Che cosa dunque si dovrà dire di quel sacerdote, che adopera un così nobile e sacro strumento a cose vili, strappandolo qua­si dalle mani di Dio, a cui appartiene, e ripren­dendoselo per sì reo fine dopo averglielo do­nato? …

Quanto poi al parlar basso, scurrile e buf­fonesco, talor si crede che non ci sia dentro gran male, e senza molto scrupolo lo si porta per tutto, sicché, fino in chiesa, fin sul perga­mo, fin sull’altare si sentono talora delle ma­niere di questa fatta. Altri credono di rendersi in questa maniera più popolari, e di cattivarsi l’amore della plebe. Ingannati davvero; che sé la plebe ride ai poco decenti scherzi de’ sacerdoti, non li stima per questo, né si rende loro più docile: anzi anche la plebe ha in se stessa a sufficienza buon senso per accorgersi, che il sacerdote così facendo invilisce il suo carattere, e per riconoscerlo a tali segni per un uomo leg­giero e di poco conto. E quand’anche i secolari dovessero gradire quelle maniere al tutto indecorose, vorremo noi acquistarci il favore del popolo con mezzi così indegni di noi stessi?

 Gravità nei gesti e nel portamento

 Gene­ralmente poi la leggerezza de’ discorsi suole ac­compagnarsi alla leggerezza dei gesti, del porta­mento, delle maniere, e a quella delle vesti. Deve il sacerdote in lutto il suo portamento e in tutti i suoi gesti mostrar ragione, maturità, modestia… E veramente la presenza sola di un sacer­dote pieno di gravità e di modestia è una con­tinua predicazione ed ammaestramento al po­polo, che divien più divoto col sol vederlo, e legge in lui le lezioni e i documenti di quella mansuetudine e purità e dolcezza, umiltà e pru­denza, che nella forma esterna di quel sacer­dote si dimostrano.

 Gravità nelle vesti

Quanto poi alle vestimenta, chi non sa, come sia raccomandato ai sacerdoti di portare l’abito loro conveniente da tutti i canoni? Chi non sa quanto intensamente e replicatamente si vietino tutte le fogge secola­resche, si raccomandi il color nero, la forma lunga o talare, e gli altri distintivi del costume ecclesiastico? Egli è vero che, come si suol dire, l’abito non fa il monaco; ma è vero altresì che l’abito segna il monaco, e lo distingue da tutti gli altri: e se cotanto lo raccomandano le pre­scrizioni di tanti sapienti Vescovi della Chiesa, che pur hanno autorità di comandare, e co­stantemente per tanti secoli, non è egli segno che reputarono il vestire da ecclesiastico cosa di gran momento? E se tanti uomini sommi Padri e Pastori della Chiesa, così giudicarono, qual temerità non sarà la nostra, giudicando noi altrimenti, quasi che tutti quelli si fossero ingannati!

L’abito infatti giova assai all’anima dell’ecclesiastico col dividerlo dal mondo, e col ricor­dargli continuamente, che egli ha indosso le di­vise di Gesù Cristo. Queste divise il debbono continuamente ammonire a tenersi lontano da tutto ciò che sa di profano, e che spira aria di mondo, e a munirlo, per conseguente, contro molti pericoli. Queste divise debbono essere a lui care, e bello è il costume di quei sacerdoti, i quali la mattina in sorgendo dal letto, prima d’indossare la loro veste talare, la baciano con divozione e con tenerezza. E che? Le professioni secolari amano la loro divisa: si compiacciono di averla indosso, e se ne gloriano come di cosa onorifica: il soldato non tralascia di cingere la sua spada, il magistrato non omette di vestir la sua toga: e il sacerdote di Cristo amerà meno quel suo uniforme che lo dichiara soldato del sommo Re e magistrato del regno di Cristo? E ci vorrà tanta fatica a fare che almeno non se ne vergogni? … Consideriamo bene che ogni cosa, che tende e si avvicina al vestito de’ secolari, accusa il prete di vanità e di leggerezza in faccia al mon­do, che sa troppo discernere quali siano i sa­cerdoti più rispettabili anche dal loro vestire.

Non ci sfugga ancora, che, se è contraria al­la gravità sacerdotale la forma o il colore se­colaresco dell’abito, o la troppa attillatura, non meno offende la gravità del sacerdote la sordi­dezza e la sporcizia, o l’andar troppo logori e pezzenti, non per amore di evangelica povertà, ma per negligenza ed inerzia, e peggio ancora per avarizia. Nettezza ed ordine deve risplen­dere nel sacerdote e in lutto le cose sue: netta, pulita e ordinata deve essere la casa del sacer­dote, pulite le sue vestimenta.

Ciò è massimamente richiesto per le vesti di chiesa: le talari, le cotte, i camici e tutti i sacri paramenti debbono essere tenuti mondi e non sdruciti. Tali vesti, dove siano sucide e lo­gore oltremodo, lungi dall’eccitare il rispetto ne’ fedeli, sono ad essi testimonia del nullo ri­spetto che ha per la Chiesa e per le cose della Chiesa il prete stesso. Onde, che rispetto avrà il popolo, se vede che nessun rispetto ne ha il sacerdote?

Ancora, le vestimenta sacre sono ordinate a simboleggiare le virtù interiori. Or diremo noi, che debbano simboleggiare virtù, tutte lorde e macchiate? La cotta, a ragion d’esempio, ed il camice indica la purità per la sua candidezza: or bella purità sarà quella, che invece di can­dida, mostrasi quasi nera e sozza per mille mac­chie! Su tutto ciò dobbiamo noi tirare il nostro esame, e fare i nostri propositi.

Chiudiam gli orecchi, miei Reverendi Fra­telli, alle vane scuse, colle quali cercano di di­sobbligarsi dal vestir secondo il decoro eccle­siastico i tiepidi sacerdoti.

Altri vi diranno, che queste cose esterne sono minuzie; ma non tocca per avventura ad essi il giudicare, che cosa importi al ben della Chiesa, o no: questo tocca ai Vescovi che la governano guidati dallo Spirito Santo: Spiritus Sanctus posuit Episcopos regere Ecclesiam Dei (At 20,28); e i Vescovi giudicano che il vestir l’abito ecclesiastico non sia minuzia, ma cosa di gran momento per il bene del clero e dei po­poli: e le ragioni le abbiamo già accennate.

Altri vi diranno, che è alquanto incomodo il costume ecclesiastico; ma il sacerdote, uomo di sacrificio e di mortificazione, deve essere su­periore a questi piccoli incomodi personali, trattandosi di eseguire le leggi e di provvedere al ben della Chiesa.

Altri diranno, che costan troppo: ma costoro non mostrano che una sordida avarizia, se pur non è questo un pretesto per disubbidire.

Altri vi diranno finalmente, che l’abito ec­clesiastico toglie loro la libertà. Ma per questo appunto è fatto, acciocché il sacerdote non sia troppo libero, giacché egli deve essere il servo di Dio, e non aver quella che S. Pietro chiama velamen malitiae, libertatem (1 Pt 2,16).

Insomma non mancano mai de’ pretesti ai sacerdoti tiepidi affin di sottrarsi alla soggezion delle leggi …

 Gravità nelle operazioni

Venendo poi al­la gravità, che il sacerdote deve conservare e dimostrare in tutte le sue operazioni …

I teatri, i caffè, le bottiglierie, le osterie, i ritrovi di giuoco, le conversazioni promiscue, son tutte cose opposte alla gravità sacerdotale, oltre i pericoli che in sé racchiudono, e vien riputato leggiero quel sacerdote che li frequenta.

Non è opposto alla sacerdotale gravità qual­che momento di riposo e di onesta ricreazione, quando ella segua veramente alle fatiche. Così anche Cristo agli Apostoli ritornati da una tra­vagliosa missione disse con paterna dolcezza: Venite seorsum in desertum locum et requiescite pusillum (Mc 4,31); ma questo riposo e que­sta ricreazione, oltre il dover essere moderata e necessaria, niente aver deve di profano, di tu­multuoso, di rumoroso o d’indecente … Tutto ciò che esige violente gesticolazioni di corpo, è pure opposto alla sacerdotal gravità … Non meno delle cose dette è contrario alla sacerdotale gravità e dignità l’immischiarsi in affari temporali, senza che il proprio ministero lo richiegga; massime se si prendono tali solle­citudini a fine di guadagno … Non vi ha certamente nulla di più inde­coroso ed indecente di vedere un sacerdote su per i tribunali civili a fare da causidico e da avvocato, o in vederlo mescolarsi nei testamen­ti, o fare il fattore o l’agente di qualche ricca famiglia.

Insomma tutto ciò che distrae e stoglie il sa­cerdote da Dio e dalle cose divine, e lo dissipa nelle umane, egli è contrario, per ripetere ciò che ho già detto a principio, alla gravità del sacerdote di Cristo, e dimostra leggerezza ed incostanza, perocché incostanti e leggiere sono tulle le cose fuori di Dio.

 Il messaggio del beato Antonio Rosmini nella sua sostanza presenta un’attualità del tutto evidente e urgente e sollecita una seria verifica per applicare con intelligenza ed efficacia i principi che egli con tanta sapienza esponeva al clero del suo tempo.

La virtù della gravità sacerdotale è parte della Tradizione teologica, spirituale e disciplinare della Chiesa e in quanto tale non potrà mai essere considerata superata come un valore ormai inadeguato al clero odierno.

Ritenere che la gravità sacerdotale in quanto tale sia virtù di altri tempi sarebbe voler congedarsi dalla stessa santità sacerdotale, di cui è visibile manifestazione.

Ma anche le sue concrete e fondamentali espressioni visibili (gesti, parole, abiti, ecc.) non possono essere ritenute superate in quanto dimensioni esteriori congenite con la sostanza stessa della gravità interiore che nell’uomo non può che essere indissolubilmente interna ed esterna per la natura stessa dell’uomo, composto di anima e di corpo.

La riforma del Concilio Vaticano II che dalla liturgia (SC)[1] si estende alla vita del clero (PO)[2] e dei religiosi (PC)[3] affrontando il dialogo col mondo (GS)[4], non potrà mai essere interpretata come un abbandono insipiente e dannoso della gravità sacerdotale, che se esige determinate forme di inculturazione nei tempi nuovi non potrà mai allontanarsi né dai principi, né dalla sostanza delle forme disciplinari ormai convalidate dai secoli e che scaturiscono in modo organico e coerente dalla stessa sostanza interiore della perenne virtù della gravità sacerdotale.

La Chiesa, madre e maestra guiderà con opportuna moderazione e intelligente discernimento ogni moto di aggiornamento che dovrà comunque sempre risplendere nella fedeltà al deposito della fede consegnato dagli Apostoli, dichiarato dai Padri e garantito dal Magistero costante della Chiesa.

Si comprende infine quanto il discorso sulla gravità sacerdotale sia urgente per una corretta applicazione della riforma liturgica, che nella pratica sembra veramente aver abbandonato tale comportamento tutto pervaso dallo sguardo su Dio per volgersi con i tratti tipici della secolarizzazione imperante verso il mondo pensando di conquistarlo a quelle realtà soprannaturali che senza gravità sacerdotale si eclissano totalmente sul volto di coloro che nell’esercizio del culto santo dovrebbero rivelarle con tutto lo splendore, la bellezza e la maestà della santa liturgia della Chiesa.

[1] Sacrosanctum Concilium

[2] Presbyterorum ordinis

[3] Perfectae charitatis

[4] Gaudium et spes

A OGNI SAGRESTIA LA SUA LITURGIA?

A cura della Redazione  –  4 maggio 2018

Come è possibile che non vi sia più una liturgia uguale per tutti? Ogni sacerdote fa e disfa a suo modo. Si comprende la diversità di carattere, di età, di cultura e di salute,  ma non quella della continua mutazione di segni e di parole. La gente sembra ormai  dire che in fin dei conti la liturgia è del prete di turno. Ma non è questo una forma di clericalismo, peraltro tanto deprecato? Lo dico con dolore, ma quelli che si mostrano i  più liberali sono in realtà i più intransigenti. Non vogliono osservazioni e critiche. Si  deve dar loro un credito sempre assoluto nonostante i disagi di una conduzione del rito alquanto perplessa che rispecchia le loro idee, ma non  certo la tradizione della Chiesa…

 E’ necessario distinguere gli ambienti e le attività. Nell’ambito della catechesi e nella pastorale in genere vi è grande libertà di espressione pur in modo sempre compatibile col dogma della fede, le norme morali e le leggi disciplinari della Chiesa. Qui si accetta che l’uso dei simboli e la composizione di linguaggi diversi possa veramente estendersi su un vasto e libero ventaglio di proposte. Nella liturgia invece i simboli, i riti e le preci sono stabilite con precisione dalla Chiesa in quanto diventano il tramite di grandi misteri e trasmettono con efficacia la grazia che ci salva. Come la proclamazione liturgica della Parla di Dio è legata strettamente alla sacra scrittura e non ammette alcuna divaricazione da ciò che è la Parola ispirata, così nei riti sacri e nelle preci vi deve essere la fedeltà ai simboli e ai testi stabiliti dalla Chiesa. Senza tale osservanza la liturgia subisce falsificazioni, riduzioni, omissioni o aggiunte non conformi alla fede e alla preghiera che sono proprie della Chiesa.

Inoltre la liturgia realizza l’unità della Chiesa e di tutte le sue componenti interne. Quindi deve risplendere nella liturgia il modo a tutti comune di elevare il culto santo e le varie sensibilità devono in essa trovare il fondo comune che le genera e le verifica. Quando si celebra la liturgia si deve uscire dal particolarismo ed entrare nell’unica voce che non ha dissonanze, la voce di Cristo nostro Capo e della Chiesa sua Sposa. Mutare la liturgia o alcune sue parti altera la sua identità e alla voce potente di Cristo si sostituisce la nostra flebile voce imponendo al popolo di Dio percorsi precari, soggettivi e non raramente erronei e banali che non possono dare la grazia, che é connessa soltanto ad una liturgia autentica e fedele.

Occorre allora un senso di responsabilità per i sacerdoti e tutti gli operatori liturgici affinché non presentino a Dio un falso e non ledano i diritti del popolo cristiano ad avere integralmente il culto della Chiesa per farlo proprio ed essere santificati.

Si guardi bene allora chiunque dal togliere, aggiungere o mutare alcunché nella liturgia (SC) per non dover rispondere davanti a Dio di falsari del culto da lui stabilito e di detrattori del diritto del popolo di Dio.

LA ‘GRAVITÀ SACERDOTALE’ SECONDO IL BEATO ANTONIO ROSMINI – prima parte

don Enrico Finotti

3 maggio 2018

La gravità sacerdotale, sia nella celebrazione, sia nella vita ordinaria del clero, soccombe rovinosamente man mano che avanza la secolarizzazione e il mondo entra nel santuario e nello stile di vita dei sacri ministri.

Il beato Antonio Rosmini in una delle sue Conferenze sui doveri ecclesiastici (XI)[1], già rileva le insidie e ne indica le cause che oscurano questa nobile virtù. Le sue analisi sono di estrema attualità e ci mostrano quanto siano ormai lontani dall’attuale vita ecclesiale i principi e i comportamenti che avrebbero dovuto difendere e assicurare quello stile di gravità sacerdotale che non è altro che lo specchio esteriore della santità interiore.

Nell’ XI Conferenza – Della gravità sacerdotale[2]Rosmini  esordisce affermando:

Il sacerdote è l’uomo di Dio: perciò egli de­ve essere distaccato da tutte le cose della terra… Il quale distacco si ottiene dal sacerdote col disprezzo delle ricchezze e dei piaceri, colla mortificazione, coll’umiltà e coll’ubbidienza…     Ma ottenuto questo distacco del cuore da’ beni terreni, e quest’unione costante dell’anima con ciò che è divino, avviene, che anche al di fuori si manifesti e rifulga l’interna santità del sacerdote nella gravità del suo contegno, e della sua umana conversazione, e nel buon esempio…

Il grande pensatore, nella prima parte della Conferenza riflette sulle ragioni della gravità sacerdotale, che ha nella santità la sua più alta e vera motivazione:

Perché il sacerdote dev’essere santo

…se per gravità noi intendiamo quel contegno ammoderato e giusto e pieno di costanza e di mo­destia e di ragione, che nasce e splende in tutto l’essere e l’operare del sacerdote, quando egli è in Dio fermamente fondato e radicato; chi non vede che la gravità del sacerdote è una conseguen­za della sua santità? Il sacerdote deve esser san­to, dunque egli deve esser grave: perocché quan­do il sacerdote é santo, vengono tutti i suoi pen­sieri, le sue parole, il suo portamento, i modi del suo operare, atteggiati in si fatta guisa, che riscuotono amore, incutono pensieri di Dio, ec­citano riverenza, conciliano autorità.

Ma il luogo nel quale il sacerdote attinge in modo sommo la gravità sacerdotale e nel quale la manifesta nel suo grado massimo è l’altare, soprattutto nell’atto sublime  della rinnovazione incruenta del Sacrificio della Croce:

Perché deve celebrare all’altare

Ma come ci formeremo una giusta idea della gravità di un sacerdote di Cristo? Bisogna che noi consi­deriamo questo ministro dell’Altissimo in sul­l’altare, nell’atto di  celebrare i  divini misteri.  Tutto nel tempio del Signore, nelle auguste cerimonie, ne’ mistici riti della Chiesa, inspira gravità, religioso decoro, spirituali concepimenti che sollevano l’uomo dalla terra al cielo. 11 canto stesso che usa la Chiesa nelle sacre fun­zioni, il solenne prolungato suono dell’organo, le vestimenta simboliche, gli arredi, la maestà de’ vari ordini de’ leviti, le diverse parti del tempio e la loro destinazione, il Sancta Sancto­rum, il tabernacolo, l’altare, su cui il celebrante opera de’ prodigi ineffabili che niente hanno di terreno, co’ quali egli apre il cielo e ne fa di­scendere l’Agnello immacolato, che non cessan­do di viver glorioso alla destra del Padre, di nuovo s’immola a salvazione della terra; tutto insomma incute un timore, un sacro orrore, tut­to è sublime, grande e divino. I1 sacerdote sta circondato dalla maestà del Signore, attornialo dagli Angeli, che invisibili adorano ciò che egli ha nelle sue mani…

Ora quel sacerdote, che in sull’altare, depo­ste quasi le condizioni mortali, prende una cotal forma divina, è quegli stesso sempre, anche quan­do scende dal monte santo, anche quando è uscito dal tempio del Signore. Non cessa egli mai di essere un sacerdote del nuovo Testamen­to: Tu es sacerdos in aeternum; immagine di Cristo, rappresentante di Cristo, operatore di prodigi in cielo e in terra (che non v’hanno mag­giori prodigi di quelli della consacrazione del pane e del vino, e del rimettere i peccati). Ovunque egli sia, ovunque egli vada, il suo sa­cro carattere, la sua dignità l’accompagna: egli non la può depor mai questa dignità, egli non la può mai staccare da sè, perocché l’Onnipo­tente l’ebbe impressa indelebilmente nell’anima sua, ve l’ebbe suggellata col suo suggello; e co­me l’uomo non può mai distaccarsi dalla sua propria anima, perocché l’anima sua è egli stes­so, e non può mai staccarsi da se stesso, cosi il sacerdote non può mai dipartirsi e staccarsi dal­l’eterno segnacolo impresso indelebilmente e scolpito nell’essenza dell’anima sua, dal caratte­re che forma il suo sacerdozio.

Or come sarà dunque possibile che il sacer­dote pure se ne dimentichi? come sarà possi­bile, che il sacerdote perda la coscienza di sua grandezza, e disimpari la riverenza che deve a se stesso? come sarà possibile che quel mini­stro del Signore, che la mattina in persona del Signore distese le sue mani e offerì all’Eterno Padre l’incruento sacrifizio dell’immacolato di­vino Agnello, poche ore dopo non senta ripu­gnanza a dimostrarsi nel suo contegno frivolo, volgare, inconsiderato, privo del sentimento del­la decenza, se non anche dominato da cieche passioni?

Veramente la celebrazione del culto divino all’altare di Dio, soprattutto l’offerta del Sacrificio incruento, è, secondo la nota espressione del Concilio culmen et fons (SC10), il culmine e la fonte della gravità sacerdotale, che da questi atti sublimi, compiuti in persona Christi, avvolge fin nell’intimo il sacerdote conformandolo al Sommo Sacerdote, Cristo Gesù, e discende poi dall’altare investendo col suo profumo celeste ogni altro atto della vita sacerdotale.

Sebbene la gravità sacerdotale sia un comportamento esteriore e visibile, tuttavia essa è vera, solida e autentica se ancor prima è presente e viene continuamente alimentata nelle profondità interiori dell’anima del sacerdote:

Gravità interiore e difetti contrari ad essa

Sebbene per «gravità» comunemente s’intenda la composizione esteriore della persona, tuttavia… ella adorna tutto il sacerdote: è interna ed esterna.  Il sacerdote di Gesù Cristo deve essere pri­ma grave davanti a se stesso, debbono essere gravi i suoi pensieri, i suoi affetti: poscia egli deve esser grave innanzi agli altri, gravi esser debbono le sue parole, grave il suo vestire, gra­ve il suo conversare … Il sacerdote avrà in se stesso la gravità in­teriore, se sarà grave ne’ suoi pensieri, ne’ suoi all’etti, se nella sua mente dominerà Iddio e la immutabile parola di Gesù Cristo; se questa pa­rola abiterà in lui abbondantemente, ed egli le darà costante attenzione.

La gravità sacerdotale è minacciata da seri pericoli che possono minare fin dalle radici la sua identità e la sua solidità. Si tratta in particolare dello spirito avverso alla Tradizione, sia nel pensiero teologico classico conforme “alle massime antiche e provate della Chiesa e dei Padri”:

Segni ed effetti di leggerezza

Ancora, il sacerdote non acquisterà mai un pensar solido e fermo, se egli facilmente darà orecchie alle novità mondane e inutili della giornata, e lascerà che s’introducano nel suo cuore massime secolaresche, ed aprirà l’adito in se stesso a’ principi di quella materiale e sensuale filosofia, o piuttosto vana fallacia, come la chiama San Paolo, che si volge tutta intorno alle cose ter­rene, e nulla cura si dà di quelle della vita fu­tura, lasciandosi forse talmente lusingare e fal­sare la mente da certi ragionari che hanno ap­parenza buona, e sono falsi, e discostare per essi dalle massime antiche e provate della Chie­sa e de’ Padri, acquistando fin anco tale teme­rità ed audacia da facilmente accusare d’igno­ranza e d’errore i nostri venerabili Padri e Maestri, il cui senno solido e fondato non può e non potrà mai esser vinto dalla presuntuosa saccenteria.

Di nuovo, leggerezza di pensare, e non gravità ed assennatezza dimostra quel non voler dare ascolto e piegare all’esperienza de’ più savi e de’ più probi, e in quella vece affidarsi alla guida di certi ragionamenti propri, o attenersi alla scuola de’ giovani più presuntuosi e più ardili imbevuti di dottrine straniere.

sia nella disciplina canonica, ispirata alla saggezza secolare della Chiesa:

Un altro segno ed effetto della leggerezza di mente e di pensare, che tanto disdice agli eccle­siastici, dimostrasi allorquando il chierico o il sacerdote trova grave e importabile il giogo della santa disciplina, e se ne lamenta, o ne censura le disposizioni, e in quella vece aspira nel’ suo cuore ad una maggior libertà e minor soggezione. Il che non si manifesta mai ne’ gra­vi e pii e solidi ecclesiastici: perocché questi non amano punto la libertà, temendo con ragio­ne di se stessi, e gustando che le proprie pas­sioni, le quali anche in essi si fanno sentire, trovino il salutar freno delle leggi disciplinari: oltreché   non  cercano   il   sollievo  ed il piacer proprio, ma si dilettano del bene anche con proprio sacrificio, amano l’ordine e il’ decoro, né ricusano quella mortificazione che l’uomo deve sostenere, sottomettendo il collo al santo giogo della pia disciplina.

I leggieri all’incontro vorrebbero gettar da sé questo salutar giogo, di cui considerano la molestia, e non ne considerano il vantaggio, la necessità, la ragionevolezza … perché non hanno fermo e risoluto amore al bene, e perché cercano se stessi, e non Cristo.

Amore al ritiro

Il beato Antonio Rosmini considera l’amore al “ritiro” come strumento indispensabile e ossigeno rigenerante per conservare, recuperare e incrementare quella vita interiore che poi si riflette con tanta efficacia nel portamento esteriore della persona del sacerdote pervaso da gravità soprannaturale:

Ma di tutti i mezzi il più necessario a conseguire questa gravità… è l’amore al ritiro, necessarissimo oltremodo alla vita sacerdotale, e non poco difficile a conser­varsi fino che non n’è falla la buona abitu­dine… Fu sempre questa fuga del mondo, questo ritiramento dalle cose esterne, consideralo co­me necessario al sacerdote ed a lui prescritto da’ Concili e da’ Padri… Il sacerdote, che si fa veder rare volte in pub­blico, e che esce dal suo ritiro unicamente quando lo chiamano fuori le incombenze del suo mi­nistero, o gli uffici di carità, è considerato con maggior venerazione dagli uomini … egli sembra un angelo che discenda dal cielo; sembra un Mose che scenda dal monte. Né solo egli sembra tale, ma sarà tale veramente, se il suo ritiro è santo, e quale deve essere il ritiro del sacerdote, pieno di opere buone, di meditazione, di orazio­ne, di studio… Il vero sacerdote abborrisce il mondo e ne teme i pericoli, giacché… egli non vi trova che motivi di dolore, poiché mundus totus in maligno positus est. Nulla l’allettano le sue vane lusinghe e i suoi piaceri, perché li vede tutti avvelenati e mortiferi, e perché i diletti del mondo gli sono tutti morti in cuore…

Che se i suoi doveri il traggono dal suo rac­coglimento, quanto non desidera poi di ritor­narvi quasi navicella che dal mare agitato si ricovera in porto, o timida colomba che dal­l’ampie regioni dell’aria, dove vede volteggiare gli avvoltoi, si rifugge nel nido! Egli sente, do­po esser stato nel mondo, sebbene statovi pe’ suoi doveri, che il suo spirito erasi alquanto dissipato, e ne ristora le perdite; sente che ave­va perduta parte della sua quiete, e gusta viep­più soave la pace della cara sua solitudine.

Se dunque i santi stessi, dopo essersi occu­pati e sparsi nelle sollecitudini della vita este­riore, sentono il bisogno di raccogliersi… quanto più i sacerdoti non ancora perfetti debbono aver cara la vita ritirata dal mondo e nascosta? E qual ragione, se non tale da indicare in essi purtrop­po leggerezza, può far loro desiderare di uscir fuori, o piuttosto starsene di continuo fuori sparsi senza necessità?

Ci rendiamo conto tuttavia quanto sia diversa e contraria l’odierna impostazione di una vita sacerdotale totalmente rivolta ad assecondare, senza difese e quasi ingenuamente, il turbine della vita mondana, ormai priva di ogni senso trascendente.

[1] ANTONIO ROSMINI, Conferenze sui doveri ecclesiastici, Edizione V, S. A. I. E. SODALITAS, DOMODOSSOLA, MILANO, 1941

[2] Idem, pp. 231-252

“…MA I SACERDOTI PREGANO?”

A cura della Redazione

1 maggio 2018

Recandomi per la confessione in un vicino santuario fui colpita dalla posizione raccolta e immobile di un sacerdote raccolto in preghiera. Mi sono chiesta: ma anche i sacerdoti pregano? Siamo abituati a vederli trafelati in mille cose e anche durante la Messa sembrano tutti presi dalla conduzione del rito e pare che per loro la calma della preghiera non ci sia, impegnati come sono nel tenere desta l’attenzione della gente. Un sacerdote dimentico di tutto raccolto in preghiera mi parve una novità e mi colpì al punto che non volli disturbarlo…    (lettera firmata)

Anche se questa testimonianza non si riferisce direttamente alla liturgia è tuttavia interessante per il tema qui trattato Conversi ad Dominum.

I fedeli attenti e sensibili osservano i loro sacerdoti e dai loro comportamenti ne traggono considerazioni interessanti. Possiamo chiederci: perché questo stupore se dovrebbe essere normale che un sacerdote preghi? Passando dal caso dell’orazione personale a quello specifico della liturgia potremmo interrogarci sul modo di celebrare e verificare se il senso della preghiera passi sufficientemente dall’ars celebrandi dei ministri di ogni ordine e grado all’assemblea convocata. Infatti se non passa questa dimensione cosa altro dovrebbe offrire la liturgia dal momento che essa stessa è di sua natura la preghiera pubblica e integrale del popolo di Dio?

Forse è opportuno mettere in luce quali dovrebbero essere le fondamentali disposizioni interiori e i relativi gesti esteriori che il sacerdote deve assumere nell’azione liturgica:

* posizione latreutica: il sacerdote rappresenta il Signore stando alla testa del popolo rivolto a Dio Padre nello stesso senso dell’assemblea. Egli tiene il posto di Cristo sommo sacerdote che, quale capo della Chiesa, guida e precede i fratelli nella lode adorante al Padre. Ciò si verifica in particolare nell’offerta del Sacrificio eucaristico e in tutti quei riti che, volgendosi alla divina Maestà, esprimono l’adorazione, la lode e la supplica. Tipico della posizione latreutica è il gesto delle mani elevate o giunte e l’orientamento del corpo e dello sguardo verso un simbolo sacro. L’altare è il luogo santo che è tutto pervaso dall’ascesa latreutico-sacrificale: corpo, mani e occhi si elevano nella comune attrazione verso il mistero.

* posizione kerigmatica: il sacerdote con l’autorità del Signore si volge al popolo per annunciare e spiegare la parola di Dio. E’ la posizione che si assume nella liturgia della parola e in particolare nell’omelia. La sede e l’ambone sono, infatti, luoghi adatti all’istruzione e alla guida del popolo.

* posizione epicletica: il sacerdote si volge ai fedeli per agire su di loro santificandoli con i medesimi gesti comandati dal Signore. Ciò si verifica quando il sacerdote celebra i sacramenti, amministra il Corpo di Cristo e imparte le benedizioni. Tipico dell’epiclesi è l’imposizione delle mani e il relazionarsi ad homines.

Queste tre dimensioni si vedono chiaramente nella vita del Signore come si legge nel santo Vangelo. Infatti, Gesù si ritira in preghiera, eleva gli occhi al cielo, rimane a lungo in intimità col Padre fino al vertice ascendente dell’offerta del suo sacrificio, incruento nel cenacolo e cruento sulla croce (aspetto latreutico); annuncia la parola e spiega ai discepoli e alle folle la dottrina celeste (aspetto kerigmatico); opera i miracoli nella potenza dello Spirito e risana tutti, fino a donare a loro il suo Corpo e il suo Sangue (aspetto epicletico).

Sembra che oggi gran parte della liturgia, almeno nella sua attuazione pratica, si sia ridotta ai soli due movimenti kerigmatico-catechistico ed epicletico-comunicativo con la scomparsa o la forte riduzione della posizione latreutico-contemplativa.

Occorre inoltre affermare che l’aspetto latreutico coinvolge intimamente gli altri due e ne costituisce l’orizzonte necessario. Infatti, sia l’annunzio liturgico della Parola, sia l’amministrazione del sacramento sono intrinsecamente atti di culto, in quanto il discepolo si sottomette al maestro divino che insegna e al medico celeste che risana. Ecco perché sia la liturgia della parola come il conferimento del sacramento devono essere celebrati in un clima cultuale di adorazione e di lode, stando alla presenza di Dio che parla e opera la nostra salvezza. La crisi dell’aspetto lateutico, quindi, colpisce non solo questo aspetto primario e centrale della liturgia, ma anche quella didascalica e sacramentale, che perdono la loro intrinseca finalità e sacralità. Infatti, parola e sacramento hanno come loro fine l’adorazione beatificante, quaggiù nell’oscurità della fede, lassù nella luce della gloria.

Il fatto che la posizione orante del sacerdote venga oscurata non è allora cosa di poco conto e rivela quel deficit sacrificale che è appunto segnalato dal sensus fidei di tanti fedeli.

IL RICORSO ALLA GRAZIA – I SETTE SACRAMENTI terza parte

don Enrico Finotti  –  1 maggio 2018

UN NUOVO ‘INVESTIMENTO’ SU DIO

Come superare questa crisi di fede alquanto radicata e capillare nel tessuto ecclesiale, al punto da apparire irreversibile e talmente condivisa da scoraggiare ogni tentativo di revisione?

Con un nuovo ‘investimento’ su Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo (Ef 1, 3), mediante un coraggioso ritorno alla fede, accettata integralmente nella sua pienezza dogmatica, senza riguardo al mondo e alle sue presunte conquiste umanitarie nella misura che fossero contrarie alla Legge eterna di Dio e alla divina Rivelazione. In tale orizzonte la Chiesa non deve temere di annunziare la Verità, ossia Cristo stesso che afferma: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14, 6). Essa non deve ricercare il successo e la facile compiacenza degli uomini, ma obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (At 5, 29) e compiere la sua missione con lo sguardo unicamente rivolto a Lui, affidando a Lui solo la conversione dei cuori e l’efficacia dell’opera di evangelizzazione e di santificazione. Essa dovrà ripetere a sé stessa la ben nota dichiarazione dell’apostolo Paolo: Se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei più servitore di Cristo (Gal 1, 10), che concorda col monito dell’apostolo Giacomo: Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio (Gc 4, 4) e meditare assiduamente le parole evangeliche: Siamo servi inutiliAbbiamo fatto quanto dovevamo fare (Lc 17,10). Solo così essa potrà con umiltà e determinazione dire ancora Non possumus davanti all’errore dottrinale e con carità virile e misericordia illuminata ‘ammonire i peccatori’ per la salvezza  delle loro anime. Diversamente essa si troverà paralizzata dalla paura di non essere gradita al mondo e si sentirà costretta ad una accondiscendenza indegna che pur di conformarsi al pensiero dominante non temerà, Dio non voglia, di tradire il suo Maestro e Signore (Gv 13, 13).

Il beato papa Paolo VI ci è maestro nel coniugare il dialogo ecumenico – ma anche il dialogo col mondo – con l’indefessa fedeltà alla Verità. Nel congedare gli Osservatori delle altre Confessioni cristiane intervenuti al Concilio Ecumenico Vaticano II nell’udienza a loro concessa il 4 dicembre 1965 ebbe ad affermare:

 “Voi state per partire. Ma non dimenticate questa carità con cui la Chiesa cattolica romana continuerà a pensare a voi e a seguirvi. Non la crediate insensibile ed orgogliosa, se essa  sente il dovere di conservare gelosamente il ‘deposito’ che dalle origini porta con sé, e non l’accusate di averlo deformato e tradito, se nella sua secolare e scrupolosa e amorosa  meditazione vi ha scoperto tesori di verità e di vita, a cui sarebbe infedeltà rinunciare. Pensate che proprio da Paolo, apostolo della ecumenicità, essa ha avuto la sua prima formazione al magistero dogmatico. E pensate che la verità tutti ci domina e tutti ci libera; ed anche che la verità è vicina, molto vicina all’amore”.

Abbiano tutti i nostri pastori e teologi la grazia di parlare ed agire secondo questo mirabile equilibrio per l’edificazione dei fedeli!

‘Investire’ su Dio significa pure superare finalmente il binomio ideologico ‘progressista – tradizionalista’ in favore del comune obiettivo della ricerca della Verità. Se dalle due parti si tende alla ricerca della Verità, diventerà del tutto ininfluente essere ‘progressisti’ o ‘conservatori’. Se la Verità si trova in un valore ritenuto del passato si recupererà il passato, se la Verità si manifesta in un valore ‘nuovo’ lo si accoglierà di buon grado.

Un nuovo ‘investimento’ su Dio implica infine delle scelte coraggiose, precise e determinate, che dovrebbero maturare sempre più nella convinzione dei pastori e dei fedeli:

1.   La Chiesa deve ritornare ad annunziare il Vangelo con l’ardimento e con la forza delle origini, quando gli Apostoli per bocca di Pietro potevano dichiarare con piena convinzione alle folle: Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso! (At 2, 36). Ciò esige il coraggio e la preparazione dei sacerdoti e dei fedeli ad accogliere ed approfondire l’intero dogma della fede senza indebiti silenzi e selezioni di parti. All’integrità, alla completezza e alla semplicità dell’annuncio autentico della Parola di Dio corrisponde certamente l’intervento salvifico della Grazia, che converte i cuori al di là di ogni prospettiva e calcolo umano. Un annuncio addomesticato e svilito da fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasivento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore (Ef 4, 14) perde la sua forza soprannaturale e, sia il messaggio, che il messaggero, perdono dinanzi a Dio il profumo di Cristo (2 Cor 2, 15) e vengono gettati via e calpestati dagli uomini (Mt 5, 13). Infatti: Chi va oltre e non si attiene alla dottrina di Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina possiede il Padre e il Figlio (2 Gv 9). Il Catechismo della Chiesa Cattolica è un provvidenziale strumento per assicurare, che l’uomo di Dio sia completo eben preparato per ogni opera buona (2 Tm 3, 17). In esso le verità contenute nella sacra Scrittura si completano con quelle trasmesse dalla sacra Tradizione e tutte ricevono il sigillo di quella giusta interpretazione, che viene data dal Magistero vivo e perenne della Chiesa. La recezione dei sette Sacramenti richiede, oggi più che mai, che i fedeli siano adeguatamente istruiti nella sacra dottrina in misura della loro capacità e responsabilità. Non temano dunque i pastori a proclamare, né i fedeli a credere fermamente che: In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati (At 4, 12).

Non meravigliamoci: la fermezza del dogma non sconcerta soltanto la nostra epoca, ma turbò non poco gli stessi ascoltatori e discepoli di Cristo. Infatti, quando dopo il discorso eucaristico nella sinagoga di Cafarnao molti discepoli dissero al Signore Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? (Gv 6, 60) già si anticipava quella perenne difficoltà della debole mente umana nel sostenere lo splendore del dogma rivelato, che avrebbe accompagnato le successive vicende della Chiesa. Ed anche il fatto che da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui (Gv 6, 66) costituisce l’esordio delle troppe e tristi defezioni degli eretici e scismatici, che hanno oscurato il cammino storico del popolo di Dio. Ma la Chiesa non deve temere. Proprio in questo fatto evangelico trova anche la risposta, l’unica che la potrà risollevare in ogni difficoltà. Essa, infatti, è sempre interpellata dal suo Signore con quelle parole apparentemente sconcertanti: Forse anche voi volete andarvene? (Gv 6, 67). Ma, custodita dalla potenza divina, la Chiesa risponderà sempre con le rassicuranti parole di Pietro: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna! (Gv 6, 68).

2.   La Chiesa deve conservare con assoluta fedeltà i ‘Gesti’ istituiti dal Signore e trasmessi di generazione in generazione dalla Tradizione apostolica, i sette Sacramenti. Li deve difendere da ogni riduzionismo o alterazione e li deve celebrare con senso sacro e nobile forma. Tali ‘Gesti’ uniti alla ‘Parola’ che li interpreta, non possono essere alla mercé dei privati, ma sono di esclusiva pertinenza della Chiesa, che li garantisce con autorità soprannaturale. Essi sono ricevuti dall’Alto e consegnati mediante la divina Rivelazione e non possono in alcun modo essere ‘costruiti’ volta a volta dalla fantasia dei fedeli o dalle situazioni contingenti in cui vengono celebrati. Benedetto XVI ebbe appunto a lamentare: “Il più grave impedimento per una appropriazione pacifica della rinnovata forma liturgica consiste nell’impressione che la liturgia sia ora abbandonata alla propria invenzione” (RATZINGER J., La festa della fede, Jaca Book, 1990, p. 70, nota 8). La medesima cura con cui si rispettano i termini linguistici assunti dalla Chiesa per esprimere, definire e difendere il contenuto del dogma, deve essere impiegata verso i segni, i simboli e le parole che costituiscono i Sacramenti e ne assicurano la reale trasmissione della vita di Grazia. Come il senso autentico del pensiero del Signore può essere corrotto da un linguaggio teologico improprio, così l’efficacia della Grazia può essere incrinata dall’alterazione soggettiva dei riti sacramentali ben definiti nella loro oggettività dal Signore e dalla Chiesa, sua sposa.

La ‘partecipazione attiva’ alle celebrazioni liturgiche non può mai percorrere la strada infida della ‘costruzione soggettiva’ dei riti sacramentali, né da parte dei ministri, né da parte dei fedeli, ma consiste essenzialmente nella recezione cosciente ed umile e nell’osservanza fedele del Diritto liturgico, così come la Chiesa lo ha trasmesso e sviluppato nella continuità con la perenne Tradizione liturgica. Come non si inventa la fede, così non si inventano i mezzi divini della Grazia.

Ciò vale in modo assoluto per la parte di istituzione divina, sulla quale la Chiesa stessa non ha alcun potere, ma anche per quella di istituzione ecclesiastica, competendo soltanto all’autorità della Chiesa definire i riti.  La Chiesa stessa inoltre indica nei libri liturgici le possibilità e le modalità di adattamento, che si ritenessero pastoralmente opportune. Tuttavia tali indicazioni devono essere rigorosamente rispettate e attuate con competenza e profondità spirituale.

In un’epoca di soggettivismo, di relativismo dogmatico e morale, di sociologismo e materialismo una tale obbedienza e sottomissione ai Sacramenti della fede sembra impossibile a realizzarsi e la tentazione di concedere qualcosa al mondo e al pensiero e costume dominante è forte. Tuttavia qui sta la sfida posta davanti alla pastorale liturgica della Chiesa. La scelta è ineluttabile e inderogabile: attingere efficacemente alla Grazia o comprometterla; avere la vita eterna o metterla a rischio.

La Chiesa da un lato deve obbedire sempre al comando divino: Guarda, disse, di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte (Eb 8, 5); e dall’altro deve ripetere continuamente ai suoi figli, talvolta riluttanti verso i Sacramenti, le parole rivolte dai servi al lebbroso Naaman sdegnato col profeta Eliseo e sul punto di andarsene: Se il profeta ti avesse ingiunto una cosa gravosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: Bagnati e sarai guarito (2 Re 5, 13).

3.   La Chiesa, infine, nell’educare i suoi figli ed ammaestrare tutti gli uomini, deve confrontarsi con le primissime parole evangeliche pronunziate dal Signore: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino (Mt 4, 17). Identiche sono quelle del Precursore (Mt 3, 2). E ancora: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo (Mc 1, 15). Dello stesso tenore anche le parole di Pietro nel discorso di Pentecoste in risposta alla domanda: Che cosa dobbiamo fare, fratelli? (At 2, 37). E Pietro disse: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei vostri peccati…”. Con molte altre parole li scongiurava e li esortava: “Salvatevi da questa generazione perversa” (At 2, 38. 40).

L’odierna sfida morale non può distogliere la Chiesa dalla fedeltà a queste parole, certamente esigenti, ma colme di autentico amore per l’umanità decaduta a causa del peccato.

Se la Chiesa deve alzare la sua voce e ammonire con le parole vigorose dell’Apostolo: Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio (1 Cor 6, 9-10), ciò lo compie col cuore di madre, che suo malgrado deve annunziare la parola, insistere in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonire, rimproverare, esortare con ogni magnanimità e dottrina (2 Tm 4, 2) per la salvezza eterna degli uomini. La salvezza delle anime è infatti la sua suprema legge: Salus animarum suprema lex. E’ con l’animo colmo della misericordia del suo Signore, che la Chiesa parla ed esige. Non è la sua una posa di superbia, né una pretesa di dominio e neppure una cinica attestazione di insensibilità all’abiezione e alle sofferenze umane, ma è piuttosto con una struggente apprensione materna che Ella accompagna i passi incerti di un’umanità, che continuamente cade e tuttavia anela a risorgere. Come è possibile che si accolga di buon grado una diagnosi anche grave di un medico sincero e competente riguardo al corpo e non si riconosca il grido  desolato della santa Madre Chiesa, che da parte del Signore istruisce gli uomini sulle gravi malattie dell’anima, offrendo per di più i rimedi soprannaturali? Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? (Mc 8, 36). Certo la Chiesa sa di non essere da più del suo Signore, perché un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone (Mt 10, 33), e infatti, se molte volte ha la grande gioia di udire da uomini toccati dalla Grazia le parole di Zaccheo (Lc 19, 8), altre volte dove constatare che altri uomini, dopo aver ascoltato l’annunzio, se ne vanno col volto triste come il giovane ricco (Mt 19, 22).

E’ il mistero insondabile della libertà umana!

Già presso la croce del Signore l’umanità si divise: da un lato la bestemmia, dall’altro la consegna adorante: Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno (Lc 23, 42). E sappiamo bene che nel giudizio finale tale divisione sarà palese e definitiva: Venite, benedetti del padre mio, ricevete in eredità il regno  preparato per voi fin dalla fondazione del mondo… Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli (Mt 25, 34. 41).

 

IL RICORSO ALLA GRAZIA

Ed ecco le tre gravi sfide che stanno davanti a noi: la sfida dogmatica, la sfida liturgica, la sfida morale. Come affrontare un agone così tosto? Confidando nella Grazia divina. Infatti: Nessuno può venire a mese non lo attira il Padre” (Gv 6,44) e: Senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). Una dottrina, un culto e una morale soprannaturali possono essere accolte e realizzate soltanto col ricorso ai mezzi soprannaturali: la fede viva e la frequenza ai Sacramenti. Senza l’intervento della Grazia ogni sforzo diventa insostenibile: né la ragione comprende la Verità rivelata, né la religione accoglie i Misteri sacramentali, né la morale è in grado di capire e vivere i Comandamenti divini. Se i Signore ha ritenuto di renderci partecipi di una dottrina, un culto e una morale tanto sublimi, ci dà anche l’intelligenza per intenderli e la forza per viverli. Infatti: Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio (1 Gv 5, 20) inoltre Dio è fedele non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla (1 Cor 10, 13). La Chiesa sa bene che davanti alla grandezza delle rivelazioni (2 Cor 12, 7) non potrà mai dire: E’ acerba!, come disse la volpe incapace di cogliere il grappolo d’uva, perché è consapevole di avere a sua disposizione gli infallibili strumenti della Grazia: i Sacramenti, donde scaturiscono torrenti di forza, della cui efficacia coloro che vivono fuori della Chiesa difficilmente possono farsi una chiara idea (Pio XII, Discorso ai partecipanti al convegno del ‘Fronte della famiglia’, 27 nov. 1951).

Certo la sacra Scrittura ci ammonisce in vista degli ultimi tempi: Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole (2Tm 4, 3-4). Non richiamano queste parole anche quella confusione filosofica, dottrinale, sociologica e morale, che stiamo attraversando?

Ma nel turbine della tempesta l’Apostolo ci offre pure una chiara linea di condotta: Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero (2 Tm 4, 5); e san Cirillo di Gerusalemme nelle sue ‘Catechesi’ raccomanda: Io ti consiglio di portare questa fede con te come provvista da viaggio per tutti giorni di tua vita e non prenderne mai altra fuori di essa, anche se noi stessi, cambiando idea, dovessimo insegnare il contrario di quel che insegniamo ora, oppure anche se un angelo del male, cambiandosi in angelo di luce, tentasse di indurti in errore. Così “se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che abbiamo predicato, sia anatema!” (Gal 1, 8) [PG 33, 519-523].

LA PROFANAZIONE DEI SACRAMENTI – I SETTE SACRAMENTI seconda parte

 

don Enrico Finotti  –  30 aprile 2018

Contro questa visione teologica dei ‘divini Misteri’ vi è il diffuso costume di richiedere i Sacramenti e celebrarli come un fatto di costume, che può essere assunto senza un’adesione di fede e una corrispondente coerenza morale conforme ai santi Comandamenti.

In tale clima chiunque può accedere ai Sacramenti e talvolta li pretende. La fede è spenta, la pratica religiosa abbandonata da anni, la vita morale palesemente in contrasto con i Comandamenti, ma comunque si mettono in agenda i Sacramenti come un evento di pura convenienza sociale, di tradizione familiare e quasi folclore culturale. Inoltre un infausto e crescente buonismo tende a concedere a chiunque i Sacramenti della Chiesa, evitando ogni verifica dottrinale, spirituale e morale e riducendo in tal modo il Sacramento ad un rito di socializzazione e di superficiale strumento di approccio con chiunque esprima una vaga religiosità.

Si comprende come tale atteggiamento contrasti con la natura soprannaturale dei Sacramenti e con la Maestà di Dio, che li adombra. Certamente non è conforme col giusto rigore che da sempre ha avuto la Chiesa nell’impostare l’Iniziazione ai Sacramenti e nel discernere la preparazione di coloro che li richiedevano.

In corrispondenza con questo accesso superficiale ai Sacramenti da parte di considerevoli masse di fedeli in una società ormai scristianizzata, avanza un concetto e una prassi pastorale, che induce i sacri ministri ad abbassare la sacralità insita nei riti sacramentali e, mediante una indebita creatività, a strumentalizzare venerandi riti e preci, che vengono trattati come libere espressioni in un contesto soggettivo variabile e rielaborato volta a volta secondo l’estro del momento, la diversa situazione e la sensibilità dei presenti.

Non più il rispetto e la sottomissione obbediente al rito stabilito dalla Chiesa, conforme alla venerabile ed interrotta Tradizione, ma materiale di libero impiego per una ‘celebrazione’ attualizzata, libera e ‘incisiva’ sulla concreta ‘assemblea’ dei presenti. In tal modo non solo è colpita la legittimità di tali realizzazioni rituali, ma non raramente sorge il serio interrogativo anche sulla stessa validità dei Sacramenti in tal modo debilitati.

Dunque, di fronte alla grandezza soprannaturale dei ‘santi segni’ istituiti dal Signore e compiuti da Lui nell’ ‘oggi’ della vita della Chiesa, si ergono due pericolose derive che pretendono erroneamente di imporsi:

– L’estesa secolarizzazione della società ritenuta irreversibile e ormai insensibile ad ogni monito e richiamo alla conversione mediante l’adesione all’intero dogma della fede giustificherebbe l’accesso ai Sacramenti di fedeli con una religiosità quanto mai vaga e del tutto relativistica riguardo ai contenuti oggettivi del Depositum fidei. La visione storicistica considera ciò che succede un fatto ineluttabile e un’espressione della volontà di Dio, per cui non si distingue adeguatamente tra ciò che Dio vuole (volontà divina) e ciò che Dio tollera (permissione divina). In tale errata prospettiva si può arrivare a ritenere che fatti come il secolarismo, l’apostasia di massa dalla fede, il relativismo religioso e morale, la crisi delle vocazioni, l’insensibilità ai valori assoluti, ecc. siano ‘segni dei tempi’ in ordine alla volontà di Dio e quindi sfide da accogliere e interpretare. In realtà tutti questi eventi nefasti sono sì permessi da Dio, ma da Lui già condannati e tollerati per rispetto alla libertà umana. Egli attende il nostro ravvedimento e per questo usa pazienza. A noi l’impegno di una più intensa ed umile preghiera unita ad una continua e seria conversione. Ecco perché siamo invitati ad attendere alla nostra salvezza con timore e tremore (Fil 2, 12) e ad entrare per la porta stretta perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano! (Mt 7, 13-14). Il contrasto col vivere mondano non può esimere la Chiesa dal richiedere ai suoi fedeli l’adeguata preparazione dottrinale per l’adesione convinta al dogma della fede, la sacralità nella celebrazione fedele dei riti sacramentali e la loro degna recezione. Queste condizioni sono intrinsecamente richieste per il rispetto della natura dei Sacramenti, per l’adorazione a Cristo Signore, che intimamente li vivifica con la sua Grazia, e per la loro efficacia e fruttuosità soprannaturale in ordine alla salvezza.

– Al contempo nel contesto del secolarismo imperante e in risposta ad una pastorale certamente difficile si è diffusa nei ministri sacri e nelle comunità cristiane la convinzione della presunta impossibilità di accettare e sottomettersi ancora al diritto liturgico stabilito dalla Chiesa in luogo di una libera creatività, che valuta unicamente il successo immediato e l’impatto psicologico e sociologico.

In realtà l’azione della Grazia è connessa soltanto ad una liturgia celebrata secondo le regole (2 Tm 2, 5) e l’abbandono totale o parziale di tali regole, stabilite nei libri liturgici, espone sacerdoti e fedeli alla possibile perdita dell’influsso della Grazia, che soltanto una liturgia valida e legittima garantisce. Non a caso la Chiesa prega: tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno (XXXI dom. per annum, colletta).

Possiamo così rilevare come al basso livello di una vaga religiosità ormai largamente diffusa, priva dei contenuti oggettivi del dogma, corrisponda una ‘pastorale’ di altrettanto basso livello che fonda sé stessa non sul primato di Dio e la confidenza nell’azione soprannaturale compiuta dal Signore, attualizzata nella fedeltà ai Sacramenti come Lui li ha istituiti e la Chiesa li celebra, ma sulle povere forze umane e sulle precarie ipotesi di ‘scienze’ ancora deboli e fluttuanti con prospettive forse immediate e apparentemente vincenti, ma in realtà effimere e deludenti in quanto prive dell’ ‘ossigeno’ della Grazia.

I SETTE SACRAMENTI – prima parte

Don Enrico Finotti  – 29 aprile 2018

IL TESORO DELLA CHIESA

Qual è il tesoro della Chiesa?  I sette Sacramenti.

Che i Sacramenti siano il tesoro della Chiesa risulta immediatamente evidente non appena si consideri che essi sono Cristo stesso, risorto e vivo, presente a noi oggi nell’atto di operare sacramentalmente la nostra Redenzione.

Se già Pio XII definì la liturgia come il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come Capo della Chiesa (PIO XII, Mediator Dei, 20) ; e l’Anno liturgico come Cristo stesso, che vive sempre nella sua Chiesa e che prosegue il cammino di immensa misericordia da Lui iniziato… in questa vita mortale… allo scopo di mettere le anime umane al contatto dei suoi misteri…, perennemente presenti ed operanti… (PIO XII, Mediator Dei, 163), tanto più tale definizione si addice ai sette Sacramenti, che sono la punta di diamante di quell’azione misteriosa con cui Cristo opera in ogni azione liturgica e nella estensione dell’Anno liturgico.

Nessuno certo dubiterà che Cristo Gesù sia il tesoro della Chiesa, ora i Sacramenti sono la sua emanazione vitale, proprio come allora quando tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti (Lc 6, 19). Ecco perché san Leone Magno poté affermare: Quanto del nostro Redentore era visibile è passato nei Sacramenti (PL54, 398).

Inoltre se già in ogni Sacramento vi é la virtus salvifica del Signore, nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia Egli è presente in modo ‘vero, reale e sostanziale’ (Cfr. Concilio tridentino), un modo tanto singolare e misterioso, che suscita la nostra adorazione con un vero culto di latria.

Perciò i Sacramenti costituiscono il momento più alto e più intenso della vita della Chiesa, che è la vita della Grazia soprannaturale, ossia quella Vita divina che scaturisce dalla santissima Trinità e che ci è comunicata, mediante il Verbo incarnato, nella potenza dello Spirito Santo, in diversa misura e sotto diversi aspetti, in relazione alla finalità di ogni Sacramento da Lui istituito.

 I sette Sacramenti della Chiesa sono:
 Il Battesimo – la Confermazione  – l’Eucaristia  – la Penitenza – l’Unzione degli infermi  –  l’Ordine –   il Matrimonio.

Si distinguono in: Sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Confermazione e Eucaristia); Sacramenti della guarigione (Penitenza e Unzione degli infermi); Sacramenti al servizio della comunione e della missione (Ordine e Matrimonio). Essi toccano i momenti importanti della vita cristiana. Tutti i Sacramenti sono ordinati all’Eucaristia «come al loro specifico fine» (san Tommaso d’Aquino) [cfr. CCC Compendio n. 250].

Il termine ‘Sacramento’ (Sacramentum) è la traduzione latina del termine greco ‘Mistero’ (Misterium). Quando si dice ‘mistero’ si intende un evento mirabile, che si compie invisibilmente sotto il velo di realtà visibili, che al contempo ne rivelano la presenza e ne nascondono le dimensioni più intime e profonde.

Tali sono appunto i Sacramenti, che mediante segni visibili comunicano all’anima effetti soprannaturali invisibili. Per questo essi sono opportunamente chiamati ‘i santi Misteri’ e sono totalmente pervasi dal senso del ‘sacro’, ossia dalla percezione della divina presenza e della potenza soprannaturale della Grazia.

LA MAESTA’  DEI SACRAMENTI

 I sette Sacramenti, infatti, non sono stati solamente istituiti dal Signore, e in quanto tali rimandano a Lui e al ricordo delle sue azioni, ma essi realizzano, qui ed ora, i suoi stessi atti salvifici, oggi come allora, diverso è soltanto il modo: allora il Signore agiva direttamente, mediante il contatto vivo del suo corpo, facendo udire la sua voce e mostrando i suoi gesti corporei; oggi opera per la mediazione dei suoi ministri, che agiscono in persona Christi capitis. Tuttavia unica e attuale è la Sua presenza e identico il contenuto delle sue parole e l’effetto della sua Grazia.

Chi è pervaso da questa convinzione teologica entra nei santi Misteri con riverenza e timore (Eb 12, 29) e non indulge ad alcuna banalità, anzi esige precisione in ogni cosa, nobiltà di linguaggio, di abbigliamento e di comportamento e il suo sguardo interiore ed esteriore è adombrato dalla divina presenza come Mosè, che davanti al roveto ardente udì queste parole: Togliti sandali dai piediperché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!  (Es 3, 1-6).

Ogni volta che entriamo nella divina Liturgia dovremmo sentir risuonare nel nostro spirito queste splendide parole:

“Voi vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme             celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei  cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, al Mediatore della      Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele!.

“Perciò, poiché noi riceviamo in eredità un regno incrollabile, conserviamo questa  grazia e per suo mezzo rendiamo un culto gradito a Dio, con riverenza e   timore; perché il  nostro Dio è un fuoco divoratore (Eb 12, 22-24. 28-29).

Questa percezione di fede ci offre il giusto atteggiamento interiore ed esteriore per disporci ad una degna celebrazione dei Sacramenti e soprattutto del Sacrificio eucaristico.

 Qualcuno riduce la portata di queste considerazioni ricorrendo indebitamente a quella confidenza filiale che il Signore raccomanda ai suoi discepoli quando afferma: Quando pregatediteAbbà, Padre! (Lc 11,2). Tale confidenza, tuttavia, è propria soltanto del Figlio unigenito, della stessa sostanza del Padre, ed è concessa a noi, elevati al rango di figli adottivi per l’accondiscendenza della Sua infinita misericordia, come un ‘osare’ (audemus dicere), che non può mai diventare una pretesa, ma rimane un dono da ricevere continuamente e sempre con gratitudine, timore e tremore (Fil 2, 12). Già questo fatto stabilisce la natura singolare di questa confidenza divina, che mai depone la Maestà della sua gloria e non consente che nessuno mai si prenda gioco di Dio, secondo le parole dell’Apostolo: Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio (Gal 6, 7). Oltre a ciò occorre ribadire che la celebrazione dei santi Misteri implica sempre il culto rivolto alla santissima Trinità nel quale si accede al Padre luce inaccessibile (1Tm 6, 16), mediante il Figlio, santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli (Eb 7, 26), nella potenza dello Spirito Santo fuoco divoratore (Eb 12, 29). E’ questo il senso e il tenore delle solenni liturgie celesti descritte nell’Apocalisse e che ci aspettano nella visione della gloria. A queste si deve ispirare la liturgia terrena celebrata quaggiù ancora nel regime della fede. Esse sono quel modello, che Dio mostra sul monte fin dalla rivelazione a Mosè e che già nell’Antica Alleanza ebbero una timida e precaria realizzazione nella liturgia del Tempio.

Altri ritengono che le azioni salvifiche di Cristo debbano essere spogliate di ogni apparato rituale e liturgico col pretesto che il Signore operò la nostra Redenzione con atti di vita ordinaria come fu per la stessa morte sulla croce in un contesto del tutto profano fino a consumarsi fuori della città santa. In questa prospettiva equivoca non pochi furono gli abusi liturgici e le profanazioni dei Sacramenti. Si deve al contrario ricordare che fu proprio Cristo Signore a dare al Sacrificio incruento della croce (l’Eucaristia) forma rituale e in tale forma lo comandò alla sua Chiesa: Fate questo in memoria di me (1 Cor 11, 24-25). Anche il Sacramento fondamentale e necessario per aver parte alla vita eterna, il Battesimo, è fin dal suo inizio un rito al quale Cristo stesso si sottopose e che esplicitamente ne comandò la celebrazione alla Chiesa: Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo (Mc 16, 16).

Ecco perché la forma rituale, la solennità liturgica e il carattere sacro sono intrinsecamente necessari alla celebrazione dei Sacramenti. Esse sono conformi con la volontà istitutiva del Signore e coerenti con la perenne Tradizione Apostolica sempre viva nella Chiesa. Senza tali espressioni la presenza e l’azione del Signore, che viene nel mistero insieme ai suoi Angeli e ai suoi Santi, subisce offesa e i ‘santi segni’ sono profanati.

Ed è proprio perché l’azione della Grazia divina, che scaturisce dal Signore presente ed operante, è invisibile ai nostri occhi, che la Chiesa protegge questi mirabili gesti con riti, simboli e preci, che ne assicurino la nobile celebrazione e suscitino la giusta venerazione in tutti coloro che partecipano alla celebrazione liturgica, in primo luogo i sacri ministri, ma poi tutti i fedeli secondo il loro ruolo e la loro responsabilità.

L’insondabile umiltà del Signore, che volle nascondere la Maestà della sua divina presenza e dei suoi gesti salvifici sotto il velo alquanto opaco delle realtà visibili per essere il Dio vicino, non può giustificare un trattamento superficiale e indegno di segni che sono Suoi e ai quali è legata la nostra eterna salvezza.

Lo stupore adorante verso i santi Misteri si coglie in modo mirabile nel noto canto eucaristico: Adoro te devote latens Deitas, qui sub his figuris vere latitas: tibi se cor meum totum subicit, quia te contemplano totum deficit. Qui il cuore credente trova la sua più alta contemplazione e l’ars celebrandi riceve la sua più autentica formazione. (continua)

TESTIMONI O MAESTRI?

A cura della Redazione 

27 aprile 2018

Per decenni nel post-concilio si andava dicendo che non si doveva più fare il catechismo, ma fare l’esperienza dell’incontro col Signore. L’insegnamento della dottrina in questo modo fu abbandonato e sostituito con la comunicazione delle ‘nostre esperienze’ e della ‘testimonianza’ di persone ‘credibili’. Anche nelle celebrazioni le testimonianze e l’ omelia-raggio avevano grande considerazione. Che ne dite?

(Un catechista)

 Possiamo ricordare alcuni slogan che rivelano questa mentalità a carattere antidottrinale ed esistenziale: Chiesa dell’incontro o Chiesa dell’annunzio? Testimoni o maestri? Ogni slogan contiene una verità che si coglie nella misura che si supera la contrapposizione aut-aut in favore della composizione et-et. Si intende che i due termini – incontro e annunzio, testimone e maestro – non si escludono reciprocamente, ma si esigono e si completano. Infatti, non si può udire la parola senza incontrare colui che la proclama, né si accoglie veramente chi è inviato senza ascoltare il messaggio che annunzia. La fede, dunque, nasce insieme dall’incontro con chi annunzia e dal messaggio che egli trasmette, così come nell’incontro personale col Signore si accoglieva la sua parola. La logicità di questa considerazione purtroppo è stata travolta dall’estremismo ideologico di interpretazioni parziali che hanno condotto non alla composizione degli elementi, ma alla loro opposizione fino alla reciproca esclusione. In tal modo l’incontro fu ridotto ad un rapporto del tutto soggettivo e personalistico col ‘testimone’ al quale fu tolta ogni possibilità di annunzio e ogni ruolo di insegnamento.

Con questa separazione, però, i contenuti della fede vennero oscurati, mentre la catechesi e la stessa liturgia furono ridotte ad una ridda di testimonianze di varie persone chiamate a portare la loro esperienza e i presenti venivano sollecitati a ‘raccontare la propria storia’, o comunque comunicare la loro ‘esperienza spirituale’. Perciò il catechismo, inteso ormai come freddo insegnamento di una dottrina, doveva essere abbandonato in nome di una più calda e credibile ‘esperienza di fede’, alimentata da testimonianze di persone ‘vive’.

Nessuno dubita del valore della testimonianza di un credente e della grazia di poter incontrare cristiani coerenti e convinti, testimoni autentici della fede che professano, ma ciò non toglie la necessità di una adeguata formazione dottrinale, completa e organica. Si tratta di quel catechismo di base che la Chiesa ha sempre impartito ai catecumeni o ai fanciulli nell’Iniziazione cristiana. Questo minimum di annunzio non è mai mancato nella vita della Chiesa a cominciare dal giorno di Pentecoste fino ad oggi. Per quanto si insista sull’incontro personale e sulla testimonianza di vita non si potrà mai fare a meno di confrontarsi sui contenuti della fede e di ricevere da maestri qualificati e accreditati la retta interpretazione della parola rivelata. Senza il contenuto oggettivo della dottrina cristiana e senza l’interpretazione autentica ricevuta dal magistero della Chiesa ogni incontro personale e ogni testimonianza per quanto ‘credibile’ possono essere inficiati dal soggettivismo effimero, a meno che non si dimostri il radicamento oggettivo nella dottrina di Cristo professata dalla Chiesa. Come si vede il rapporto con i contenuti dottrinali non può mai venir meno in quanto intrinseci alla stessa parola di Dio che afferma: «Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna» (1 Gv 5, 20). Il confronto con la dottrina e l’adesione piena alla retta dottrina è necessario per mantenere quella fede che sola piace a Dio e ci ottiene l’eterna salvezza: «Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse» (2 Gv. 9-11).

L’ALTARE NEI RITI DI ‘OFFERTORIO’

A cura della Redazione   –    27 aprile 2018

Nella nostra chiesa, terminata la Messa, si toglie la tovaglia dell’altare, che rimane sempre spoglio. All’offertorio della messa domenicale si porta la tovaglia, le candele, i fiori, le coppe, il calice,le ampolline e il messale. E’ possibile? Perché non si fa così anche altrove?

La domanda contiene due problematiche: l’altare sempre spoglio fuori della celebrazione e la vestizione dell’altare nel rito della preparazione dei doni.

Certamente nella storia della liturgia si ritrovano anche queste due modalità, soprattutto nell’epoca antica. Quando, ad esempio l’altare era ancora di legno veniva introdotto, posto davanti all’assemblea liturgica e rivestito con la tovaglia proprio nei riti offertoriali; poi era rimosso. Il suo rimanere nobilmente spoglio, a celebrazione terminata, perdurò anche quando si ebbe l’altare fisso e monumentale. Attualmente la vestizione solenne dell’altare, portandovi la tovaglia, i candelieri e la croce, è ritualmente prevista nel rito della Dedicazione dell’altare, quando il medesimo deve prima essere asperso con l’acqua benedetta, unto col Crisma e poi rivestito e inaugurato. Stabiliti questi elementi storici e liturgici, si deve considerare come agire oggi in proposito. 

La liturgia si deve celebrare così come l’attuale disciplina della Chiesa prevede. Infatti è la Chiesa il soggetto e la ‘proprietaria’ della liturgia. Da ciò si deve escludere che i privati, singoli o gruppi, dispongano arbitrariamente delle leggi liturgiche. La comunità locale si inserisce in un azione di culto, la liturgia, che la supera ed è più grande delle esigenze locali dell’assemblea convocata a celebrare. Si tratta di entrare in atti che sono, a diverso titolo, di Cristo e della Chiesa in quanto tale, ed è appunto in questo universale orizzonte che la liturgia emerge in dignità ed efficacia su qualsiasi altro atto di culto personale e soggettivo. Su questa base teologica indispensabile è possibile comprendere e accettare di celebrare in modo conforme a riti stabiliti e definiti dalla Chiesa. Non sono infatti gli atti nostri che ci salvano, ma quelli di Cristo e della Chiesa a noi offerti per purificare ed elevare un culto personale che da solo non avrebbe alcuna possibilità di penetrare nei cieli e di ottenerci la salvezza. Questo vale non solo per la sostanza degli atti sacramentali, ma per tutto il complesso rituale della liturgia, in quanto tutto l’insieme ha come soggetto Cristo e la sua Chiesa.

Su questa base teologica essenziale, oggi largamente disattesa, possiamo delineare la domanda posta.

Nei riti della presentazione dei doni non si parla di preparazione dell’altare, ma di disposizione sulla mensa delle oblate. In tal senso si esprimono le rubriche del Messale e la Congregazione per il culto divino si è pure ufficialmente pronunziata:

CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Risposta al dubbio Utrum in offertorio circa i doni che si possono portare all’altare, 31 ottobre 1999, in Enchiridion Vaticanum, vol. 18, n. 1727: Nell’offertorio, alla processione dei doni, si possono portare all’altare le tovaglie per il medesimo e i candelieri? R. No.

Quanto alla preparazione della celebrazione, l’istruzione Principi e norme per l’uso del Messale romano (n. 79) stabilisce quanto segue: “L’altare sia ricoperto da almeno una tovaglia. Sull’altare, o vicino ad esso, si pongano almeno due, anche quattro, o sei candelieri con i ceri accesi; se celebra il vescovo della diocesi, i candelieri saranno sette”. Se ne deduce che questi preparativi non si devono differire all’offertorio.

All’offertorio (cf. il n. 49 della medesima istruzione) “Si prepara anzitutto l’altare, o mensa del Signore, che è il centro di tutta la liturgia eucaristica, ponendovi sopra il corporale, il purificatoio, il messale e il calice, a meno che quest’ultimo non si prepari alla credenza. Poi si portano le offerte: è raccomandabile che siano i fedeli stessi a presentare il pane e il vino; il sacerdote, o il diacono, li riceve nel luogo opportuno, e li depone sull’altare, recitando le formule prescritte”. Si noti che qui nulla si dice della tovaglia da stendere.

Si fa presente che soltanto nella celebrazione del Venerdì della Settimana santa l’altare, in via eccezionale, deve essere senza ornamenti all’inizio della celebrazione (cf. Messale Romano, Venerdì nella Passione del Signore, n. 2): “L’altare sia completamente spoglio: senza croce, senza candelieri, senza tovaglie”. Dopo l’adorazione della croce, “sull’altare viene stesa la tovaglia, e viene posto il corporale e il libro (ivi, n. 21).

La cosa è comprensibile: infatti l’altare significa la presidenza di Cristo in tutto l’arco della celebrazione, dai riti di inizio a quelli di congedo. Non avrebbe senso venerare l’altare con l’incensazione durante il canto introitale se esso si presentasse privo delle sue insegne. Ogni rito si svolge totalmente sotto la presidenza dell’altare e anche quando si volge lo sguardo all’ambone e alla sede, non deve mai eclissarsi la centralità dell’altare ‘icona’ di Cristo presente e agente. L’altare, infatti, è il solo dei tre luoghi celebrativi ad essere consacrato e costituisce in tal senso un ‘sacramentale’.