LA PRESENTAZIONE DEI DONI NELLA MESSA

A cura della Redazione

25 aprile 2018

Molte volte quando si fa la processione offertoriale i vari doni sono commentati.  È da farsi? (una catechista)

Il doni offertoriali devono rispettare il primato delle oblate (pane, vino ed acqua), uniche necessarie per il Divin Sacrificio, che mai devono apparire come appendici scontate e quasi insignificanti. Eventuali altri doni devono essere curati nella loro sobrietà e qualità, per non indulgere ad inutili distrazioni e banalità. La processione offertoriale è accompagnata dal canto o da un intervento dell’organo, mai si deve mai interferire con commenti e ancor meno con applausi. La presentazione delle offerte non può scadere in un protagonismo personalistico, né in una passerella da mercatino. L’intento essenziale della processione offertoriale è quello di suscitare in tutti il moto interiore dell’offerta di se stessi in unione al Sacrificio eucaristico. Tale intima oblazione, propria di tutti i presenti, non può avvenire se non nel silenzio, nel clima sacro, nella proprietà delle forme, nel rifiuto degli eccessi teatrali. Il messaggio di una processione offertoriale di qualità traspare con efficacia dalla semplice forza di un rito nobile, sacro, degno e solenne, che si impone allo sguardo e non sopporta chiose e intrattenimenti di alcun genere. Basterebbe pensare alla bellezza e sacralità della solenne processione con gli Oli santi nella Messa del Crisma del Giovedì santo. Purtroppo attualmente sembra essere scomparso uno dei significati originali della processione offertoriale, ossia quello di introdurre le oblate nella santa assemblea con sommo onore, dovendo esse diventare il Corpo e il Sangue sacramentali del Signore. Tale ingesso onorifico è analogo a quello riservato all’Evangeliario, alla Croce processionale e ai Ministri sacri.

LA CARTELLONISTICA IN CHIESA

a cura della Redazione

24 aprile 2018

 

La nostra è una chiesa molto bella, ma è sempre invasa da cartelloni e oggetti di ogni genere. Si dice per far partecipare i bambini. Anche i visitatori ci ripetono che tutto questo materiale dovrebbe essere tolto almeno per un certo buon gusto, che rispetti la sacralità  e la bellezza della chiesa… (un sacrista)

 Nelle nostre abitazioni la gente oggi ha acquisito una spiccata sensibilità nella proprietà degli ambienti e nella disposizione dell’arredo e in genere ama l’ordine e la pulizia. Difficilmente i genitori permettono ai loro bambini di invadere con i loro giochi o disegni le parti nobili della casa. Di solito si tende a creare la stanza dei bambini col disordine tipico della loro vivacità. Ora la Chiesa ha sempre fatto così. Mentre nelle sale dell’oratorio vi erano gli spazi per i vari gruppi personalizzati a seconda dell’età, la chiesa è sempre stata mantenuta con proprietà, decoro e sacralità. E’ curioso che mentre in casa ci si ispira al buon senso, in chiesa sia dimenticata con tanta superficialità ogni regola di buon gusto e di proprietà.

Non si capisce perché le foto dei comunicandi e dei cresimandi o l’itinerario della catechesi o gli eventi del  folclore locale debbano essere esibite in chiesa, talvolta in presbiterio e in zona di massima attenzione. Si tratta di distinguere l’ambiente della preghiera e della celebrazione da quello delle altre attività pastorali. Questa invasione di campo innanzitutto lede la bellezza dell’arte, la visibilità e le linee di splendidi altari, lo spazio sacro e la sobrietà e proprietà dei vari settori della chiesa. I fedeli, ma anche i visitatori hanno diritto di pregare e di contemplare la loro chiesa in tutto lo splendore della sua genialità e di gustare il fascino delle opere d’arte in essa contenute in un ambiente che rispetti sia l’oggettiva struttura e monumentalità, sia la sacralità propria di un edificio religioso. Non tutto ciò che è buono e che fa parte di una normale vita ecclesiale è anche conforme al luogo sacro. La chiesa è luogo di preghiera, di silenzio e di contemplazione. Essa deve elevare e facilitare l’incontro soprannaturale col Signore, ricorrendo ai carismi propri dell’arte con materiali e creazioni di sicura qualità, lontani dalla mediocrità e senza distrazioni di sorta.

Questa confusione degli ambienti, invece, si ritorce contro una sana educazione religiosa sia degli adulti che dei bambini. Infatti, gli adulti vedendo la chiesa trattata come un’aula di scuola o di oratorio assumono a poco a poco l’idea che la chiesa e la liturgia siano cose puerili e debbano essere rivolte permanentemente ai fanciulli (giovanilismo). All’oggettistica si aggiungerà poi una ritualità, un linguaggio e una musica pure infantili. Verrebbe così a mancare nel popolo cristiano il senso ‘virile’, serio e importante della liturgia, quale opera del popolo nella sua più alta espressione pubblica e comune. Andare alla liturgia potrebbe così dare la medesima impressione che i nonni hanno nel partecipare al recital della scuola materna o simili. A lungo andare una pastorale liturgica impostata prevalentemente in questo modo finisce per deresponsabilizzare il popolo cristiano nel suo complesso e nei fedeli adulti che rivestono ruoli educativi, culturali e sociali: essi non avrebbero più la percezione della liturgia nella sua espressione più alta e matura, quale culmine e fonte della vita della Chiesa. Che ne è, infatti, oggi della liturgia solenne? Da essa sono sgorgate le manifestazioni più elevate della civiltà cristiana, la costruzione delle cattedrali, l’impiego della pittura, della scultura, della letteratura e della musica, imprimendo nella società il senso della trascendenza e, nel mentre si proclamava nel culto corale e solenne i diritti e il primato di Dio, si ponevano le basi della dignità e dei diritti dell’uomo con le annesse confraternite e strutture per le opere caritative. Possiamo dilapidare un così grande patrimonio e oscurare questa grandiosa prospettiva in nome di una riduzione banale, debole e senza fondamento della liturgia, travolta dalla frana inesorabile dell’effimero?

Ma gli stessi bambini e giovani sono danneggiati sul piano educativo della crescita e in futuro della partecipazione attiva alla liturgia e alla vita della Chiesa. Essi infatti collegherebbero la liturgia, sempre su loro misura, ad un’esperienza che con l’età dovrà essere abbandonata in vista dell’entrata nel mondo degli adulti. Essi non essendo mai venuti a contatto con l’alta e nobile forma della liturgia della Chiesa (riti, canti, tradizioni, ecc) finiranno per abbandonare ben presto la forma infantile della loro liturgia per volgersi ad altri lidi che troveranno fuori della comunità cristiana, ritenuti più conformi al progetto di una maggiore maturità umana e sociale. Insomma la ‘messa per i bambini’ e la ‘liturgia giovanilistica’, se sono proposte come esperienze permanenti e non episodiche, diventerebbero la fucina di futuri non praticanti e forse di non credenti. In tal senso non potrebbe far pensare a ciò forme di catechesi e di celebrazione che hanno come regolare esito il congedo dalla chiesa dopo la Confermazione?

Possiamo ritenere sufficiente che la grande forma della liturgia sia introdotta solo in un’età adulta? Che sarebbe se si dovesse cominciare ad insegnare la lingua italiana solo nell’età della maturità? Il bambino fin dai primissimi anni è in grado di ricevere il gusto artistico, musicale ed estetico con grande porosità e non è indifferente che questo contatto col bello, il nobile e lo splendore del vero sia stato o no offerto fin dal risveglio della vita cristiana. I grandi geni fioriscono in ambienti elevati, così i santi colgono il nettare della sacralità e bellezza liturgica fin dalla più tenera età. Ma occorre offrirla loro con generosità e fede nell’azione della grazia, che opera non nelle nostre invenzioni e teorie, ma nella fedeltà alla liturgia della Chiesa, celebrata in modo conforme alla sua più vera e nobile identità.

LA PENTECOSTE OGGI: IL COMPIMENTO DELLA PASQUA (seconda parte)

 

don Enrico Finotti

22 aprile 2018

La riforma liturgica del Concilio Vaticano II evidenzia nella Pentecoste il carattere di termine della cinquantena pasquale e privilegia il versante antecedente rivolto verso la Pasqua che l’ha inaugurata e che nel cinquantesimo giorno si compirà in pienezza[1]. Tale prospettiva totalmente pasquale accentua la preparazione (novena) e oscura il suo alone celebrativo successivo (ottava). La scelta non fu pacifica ed ebbe molte discussioni, tuttavia così fu stabilito[2]. La possibilità di prolungare la grande solennità nel lunedì e martedì successivi, oltre che assecondare radicate tradizioni di talune regioni della Chiesa, non estingue totalmente quella esigenza di continuità con i secoli precedenti, che ebbero sempre in grande considerazione la solennità della Pentecoste con la sua ottava.

Alla luce di questa breve carrellata storica è opportuno approfondire per cogliere la ricchezza di aspetti diversi e complementari, che si sono alternati nella disciplina liturgica nel corso dei secoli. La Pentecoste ha un duplice carattere[3]: da un lato è festa di chiusura della cinquantena pasquale, dall’altro è festa di apertura verso il tempo della Chiesa nell’attesa dell’ultimo ritorno del Signore. Le scelte della tradizione liturgica si sono diversificate in base all’accentuazione dell’uno o dell’altro aspetto. Se nell’epoca antica la Pentecoste era intesa come l’intera cinquantena, come estensione festiva della Pasqua, nei secoli successivi, mediante la creazione dell’Ottava a ridosso del gran giorno conclusivo, considerato ormai come un giorno solenne a se stante, la Pentecoste, appariva come l’inizio di una fase nuova della vita della Chiesa aperta al futuro e proiettata verso il mondo intero, tutta intenta nell’opera di evangelizzazione. La solennità porta quindi in sé stessa un duplice carattere: il compimento del mistero pasquale e l’inizio della missione evangelizzatrice nel mondo. Per questo, se è lecito scegliere un aspetto rispetto all’altro, non è saggio escluderne alcuno, ma considerare piuttosto come i due versanti della Pentecoste siano ugualmente portatori di aspetti singolari e complementari, ambedue interiori e consoni al mistero pentecostale. In questo giorno, infatti, si realizza la promessa del Risorto e discende lo Spirito Paraclito per l’opera di santificazione che scaturisce dalla Pasqua; al contempo in questo medesimo giorno la Chiesa muove i primi passi verso i confini della terra e inizia quel percorso storico che abbraccerà tutti i secoli ormai irreversibilmente orientati al ritorno glorioso del Signore. Chiusura e apertura sono quindi elementi indissolubili e ugualmente importanti per capire la Pentecoste. In tal senso si dovrà accettare con pari rispetto, sia la modalità antica – oggi nuovamente assunta – di chiudere la Pasqua col giorno cinquantesimo della beata Pentecoste, sia quella, che abbraccia molti secoli, secondo la quale il giorno di Pentecoste si prolunga nella sua Ottava[4].

Occorre anche considerare gli effetti conseguenti alle due impostazioni liturgiche. La Pentecoste senza ottava evidenzia certamente con più precisione il valore simbolico dei cinquanta giorni, essendo l’ultimo giorno della festa, ma al contempo la solennità in se stessa perde importanza, tendendo a diventare semplicemente l’ottava domenica di Pasqua. Questo fatto lo si può costatare nell’odierna prassi pastorale in cui la Pentecoste non ha più l’evidenza delle grandi solennità, quali Pasqua e Natale. Ad uno sguardo superficiale sembra che le tradizionali tre solennità maggiori siano ridotte a due (Pasqua e Natale) emergenti nell’anno liturgico proprio in virtù dell’Ottava che le prolunga. La scelta del nuovo calendario liturgico in tal senso ha contribuito ad una riduzione della Pentecoste, privandola di quegli elementi di evidenziazione, che nel precedente calendario erano certamente efficaci nell’innalzare il grande giorno dell’effusione dello Spirito[5]. Infatti, quando nel calendario liturgico, dopo la riforma delle rubriche (1960), si stagliavano solenni ed uniche le tre Ottave (Pasqua, Natale, Pentecoste)[6] era a tutti immediatamente evidente che tali feste costituivano i vertici assoluti e sovrani, emergenti su tutte le altre solennità e feste.

L’Ottava di Pentecoste[7], che fu celebrata dalla seconda metà del secolo VI fino al Vaticano II, oltre alla sua venerabile antichità e stabilità nei secoli, non era poi così estranea ad un retto simbolismo liturgico. Infatti, essa era un’ottava incompleta ed aperta (dalla domenica al sabato)[8]. In tal modo da un lato si consacrava il valore non soltanto delle otto domeniche pasquali, ma anche delle otto settimane pasquali, intendendo la settimana come un tutto aderente alla domenica, che la inizia quale suo primo giorno. Il fatto poi che l’ottava di Pentecoste, a differenza delle altre due ottave (Pasqua e Natale) fosse incompleta terminando appunto al sabato, affermava il mistero della stessa Pentecoste come un’ evento aperto e continuo, che si sarebbe concluso unicamente al termine della storia, quando col ritorno del Signore nella gloria l’ottava di Pentecoste si sarebbe effettivamente conclusa e con essa la consumazione piena del mistero pasquale. Il tempo per annum, infatti, rappresenta in qualche modo il tempo della Chiesa pellegrina nel mondo, che sotto il continuo influsso soprannaturale dello Spirito Santo, come in una perenne Pentecoste, cammina nei secoli, operando la santificazione dell’umanità, fino al compimento del Regno di Dio. In tal senso aveva un significato quanto mai opportuno e corretto anche la denominazione delle domeniche del tempo ordinario come domeniche dopo la Pentecoste. Esse infatti, realizzano soprattutto nei sacramenti quell’opera di santificazione che ebbe inizio con la Pentecoste e che continua nel tempo sotto la perenne epiclesi dello Spirito Santo. Il tempo della Chiesa è, infatti, un tempo pentecostale che proprio dal mistero della Pentecoste attinge continuamente la grazia che lo Spirito le infonde, fluendo senza sosta dal Risorto, che sta alla destra del Padre. Il ricorso ad un termine tecnico come domeniche per annum e tempo per annum rispetta certamente la dinamica dei primi stadi dell’Anno liturgico, quando la serie indifferenziata delle domeniche celebrava la totalità del mistero senza sottolinearne aspetti particolari, ma ciò potrebbe insinuare un carattere archeologico in riferimento ad una fase antica destinata ad essere superata nella logica dello sviluppo organico dell’Anno liturgico, caratterizzato proprio dalla relazione delle singole domeniche e tempi sacri con i misteri celebrati negli snodi portanti e determinanti della fisionomia dell’Anno liturgico sempre più definito e perfezionato.

Queste riflessioni hanno voluto mettere in luce come scelte diverse stabilite dalla Chiesa nei secoli non sono in contraddizione, ma rappresentano modalità liturgiche differenti, ma complementari, portatrici di aspetti diversificati, che arricchiscono la lettura simbolica della Pentecoste. In questa luce la comprensione della Pentecoste, come di ogni altra festa, non si esaurisce nella disciplina liturgica vigente, ma si carica di una ricchezza che può essere colta soltanto nelle successive tappe dello sviluppo storico ed anche dalla diversità dei riti legittimamente ammessi dalla Chiesa. Stabiliti i termini della questione si deve anche affermare con determinazione che nell’attuale riforma liturgica la Chiesa latina ha fatto delle scelte che devono essere da tutti accolte e rispettate nella concreta prassi celebrativa e non è lecito ad alcuno procedere a mutare quello che le vigenti leggi liturgiche stabiliscono a proposito del modo di celebrare oggi la Pentecoste.

[1] ANAMNESIS, ed. Marietti, 1988, vol. 6°, p. 145: “Per porre in rilievo la Cinquantina pasquale come un unico giorno di festa era necessario – e così si è fatto – sopprimere l’Ottava che diventava un controsenso. Il mistero pasquale viene in tal modo celebrato come un tutt’uno (morte, risurrezione, ascensione, invio dello Spirito), ma non si chiude definitivamente, aperto com’è alle prospettive della parusia”.

[2] BUGNINI, A., La riforma liturgica (1948-1975), CLV, Roma, 1983, p. 316, nota 38.

[3] RIGHETTI, vol. II, p. 312: “La festa della Pentecoste, se liturgicamente segna il termine della Quinquagesima, in realtà non finisce il mistero pasquale ma lo estende da Cristo alla Chiesa, la quale nella fiamma e nella luce dello Spirito santo dovrà, con l’opera dei suoi apostoli, sviluppare il regno universale di Cristo sulla terra”.

[4] ANAMNESIS, ed. Marietti, 1988, vol. 6°, p. 140: “Tenuto conto della psicologia umana, era perciò normale celebrare con maggior solennità l’ultimo giorno della Cinquantina. E’ bene comunque sottolineare che con la Pentecoste non si chiude definitivamente il Tempo pasquale nel senso che al mistero pasquale di Cristo fa seguito quello della Chiesa”.

[5] L’accentuazione della Pasqua e del Natale come solennità maggiori e la riduzione della Pentecoste a esclusivo complemento della Pasqua sono rese evidenti nel nuovo Calendario liturgico, che considera propriamente i due cicli: Pasqua-Pentecoste e Natale-Epifania. I fulcri celebrativi dell’Anno liturgico sono allora costituiti dalla Pasqua e dal Natale, mentre la Pentecoste viene totalmente relazionata al ciclo pasquale, priva ormai di un ruolo di presidenza su un ciclo specifico, che precedentemente era costituito dalle domeniche dopo Pentecoste.

[6] Con la riforma delle rubriche del 1960 ad opera di Giovanni XXIII furono soppresse tutte le altre ottave e conservate unicamente quelle relative alla tre maggiori solennità (Pasqua, Natale, Pentecoste). Ciò evidenziò con la massima efficacia il primato, incontestato in tutta la tradizione, delle suddette solennità.

[7] RIGHETTI, vol. II, p. 316: “In origine, con la festa di Pentecoste il ciclo pasquale era chiuso; di un’Ottava non troviamo parola prima della seconda metà del secolo VI…E’ vero che le Costituzioni Apostoliche inculcano di celebrare dopo Pentecoste hebdomadam unam, ma non sembra che questa pratica si sia molto diffusa…L’Ottava pentecostale venne aggiunta…per ricopiare la grande settimana di Pasqua”.

[8] RIGHETTI, vol. II, p. 318: “Circa il termine dell’Ottava, vi fu in tutto il medio evo grande disparità di usi liturgici. Roma e la maggior parte delle Chiese gallicane solevano in origine conchiudere la settimana di Pentecoste nel sabato successivo, com’era più esatto; altre invece nella Domenica, sull’esempio di Pasqua. In seguito, questo secondo costume generalmente prevalse, finché l’ufficio del giorno ottavo fu soppiantato dalla introduzione della nuova festa in onore della SS. Trinità”.

LE REGOLE NELLA LITURGIA

 A cura della Redazione  –  21 aprile 2018

Le attuali regole della liturgia rinnovata, a differenza del passato, sono piuttosto libere e ognuno le gestisce con grande scioltezza. Come mai?  È opportuna questa libertà?

 

La normativa liturgica dovrebbe essere il più possibile precisa e ben determinata. Infatti, la Liturgia è il culto pubblico e ufficiale della Chiesa e in quanto tale deve essere oggettivo e rifuggire ogni deriva soggettiva.

La precisione rubricale all’interno dei libri liturgici conferisce identità a ciò che la Chiesa vuole celebrare, sia al cospetto della Maestà divina, sia davanti all’intero popolo cristiano. Infatti, sia l’eterno Padre si aspetta un culto conforme a quello che è offerto dal suo divin Figlio in indissolubile unione con la Chiesa sua sposa, sia tutta la Chiesa vuole unirsi non al culto privato e soggettivo di alcuni, ma a quel medesimo culto che esercita Cristo, suo capo, e Lei stessa, quale sua inclita sposa.

La dimensione soggettiva della preghiera privata di ciascuno dei fedeli presenti non deve esprimersi se non nel silenzio dei cuori in una partecipazione interiore, cosciente ed attiva, che fa proprio il culto esteriore e oggettivo celebrato dalla Chiesa. Anche la pietà personale di ognuno deve quindi adeguarsi con gioia e riconoscenza ai riti e alle preci che sono espressione pubblica e uff iciale della liturgia della Chiesa: “per ritus et preces” (SC48) deve essere il passaggio obbligato di ogni fedele, che interviene alla celebrazione della sacra liturgia. È in tal senso necessaria la distinzione tra il culto pubblico della liturgia e quello privato della preghiera personale.

Di fatto tuttavia si deve riconoscere che il novus ordo ha assunto una notevole libertà nelle rubriche con modalità precedentemente non previste. In particolare si concedono delle opzioni diverse che possiamo riassumere in questo modo

1.  La possibilità di scelta tra diverse formule già stabilite (es. le formule del saluto iniziale, del congedo e l’introduzione al Pater).

2.  I testi delle varie monizioni brevi con possibilità di riformularle liberamente con altre parole e concetti simili.

3.  Vari altri momenti del rito nei quali è consentito al ministro sacro intervenire con brevi parole.

4.  Gli eccessivi opzional nelle parti di un rito.

Questa impostazione voleva certamente aiutare i fedeli a rendere più intellegibile il significato dei vari passaggi rituali, più varie le formule e favorire il processo di inculturazione. Tuttavia, nella pratica concreta, tali interventi hanno finito per travolgere il rito con una colluvie eccessiva e talvolta impropria di parole umane, infarcendo in modo pesante la nobile semplicità del rito, la sua eloquenza e l’equilibrio delle sue parti.

Il Concilio Tridentino adottò esattamente il metodo opposto: dovendo risanare l’eccessiva libertà del la pratica liturgica dell’epoca e soprattutto difenderla dall’eresia imperante, stabilì un apparato rigoroso di rubriche in modo da richiudere la liturgia cattolica in una corazza sicura e impenetrabile. In realtà in questo modo il Tridentino salvò la tradizione liturgica e la trasmise integra fino a noi.

L’attuale libertà liturgica viene giustificata da motivi pastorali che consentano una maggior flessibilità per adattarsi alle diverse situazioni in cui si celebra. Tuttavia estremizzando questo scopo si è dimenticato che non basta favorire la comprensione dei riti fino a perderne l’identità, ma occorre al contempo elevare i fedeli alle esigenze della liturgia, introducendoli gradualmente a celebrare senza ridurre o alterare i contenuti e le forme dei riti stessi, che non possono mai scadere a tal punto da perdere la sostanza stessa del mistero che devono trasmettere.

Il pericolo di una celebrazione fredda e puramente rubricale è attuale oggi come nel passato. Infatti sia il latino, sia la lingua parlata non esonerano il sacerdote e i fedeli dallo sforzo di una partecipazione interiore e spirituale. Non è certo la maggior libertà rubricale né l’uso del volgare a provocare automaticamente la partecipazione pia, cosciente e interiormente attiva dei sacerdoti e dei fedeli. Questo deve essere affermato in quanto i Santi di tutti i tempi hanno sempre celebrato con grande pietà al di là di ogni forma esteriore in cui la liturgia era prevista.

Se un auspicio si deve fare è che si ritorni a maggior rigorosità rubricale, eliminando con coraggio monizioni e spazi di libero intervento, facendo emergere il genio delle preci e dei gesti propri della liturgia senza indulgere a logoranti chiose e fastidiosi rifacimenti.

 

LA PENTECOSTE (prima parte)

don Enrico Finotti

L’Anno della fede ci invita  ad una più profonda conoscenza dei contenuti stessi della fede riassunti nel Credo e ad una più attenta considerazione del Catecumenato nel contesto dell’Iniziazione, quale riferimento permanente per una continua riscoperta dell’identità cristiana. Questo è stato l’intento dei due numeri pregressi della nostra rivista, che hanno trattato appunto del Credo e del Catecumenato[1]. Il tema della Pentecoste vuole completare il quadro teologico, ricordando che il Credo, senza l’epiclesi pentecostale dello Spirito Santo, rimane lettera morta e concetto senza vita, e anche l’itinerario catecumenale, senza l’interiore mozione dello Spirito, scade in un percorso burocratico, quasi un batter l’aria – come afferma l’Apostolo (1 Cor 9, 26) -, privo di illuminazione interiore e reale conversione. Il mistero della Pentecoste, al contempo soprannaturale e storico, è, dunque, evento imprescindibile e sempre attuale per una permanente riscoperta della fede. Anche l’Anno della fede, senza una sempre nuova irruzione dello Spirito, che rianima le ossa aride del popolo di Dio (Ez 37, 1-14), rimarrebbe una celebrazione superficiale e sterile.

La Pentecoste, infatti, è quella originale epiclesi dello Spirito Santo, che sta alle sorgenti stesse della Chiesa e che compenetra ogni successiva sua attività. E’ con la Pentecoste che lo Spirito Santo dà vigore alla Chiesa in analogia con quanto avvenne agli inizi della creazione, quando il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente (Gen 2,7). Lo Spirito pervade con la sua potenza soprannaturale la proclamazione viva dell’annunzio apostolico[2]; vivifica con sicura efficacia salvifica i segni, le parole e i ministri dei Sacramenti; conduce con energia soprannaturale la sacra Gerarchia e protegge da ogni errore il suo Magistero; suscita la varietà dei carismi e ne garantisce la loro autenticità; custodisce infallibilmente e indefettibilmente il cammino del popolo di Dio fino alla fine dei secoli. La Pentecoste è quindi un fatto permanente ed interiore ad ogni manifestazione storica della Chiesa: lo Spirito Santo, infatti, è il motore invisibile degli organi costitutivi della Chiesa, l’agente principale delle sue celebrazioni liturgiche e il dolce ospite dell’anima di ogni battezzato che vive in grazia santificante. L’insegnamento, il sacramento e il ministero sono quindi interiormente intrisi dal celeste balsamo dello Spirito Santo.

La Pentecoste nell’Antico Testamento (il giorno cinquantesimo)

Nell’Antica Alleanza emergono tre grandi feste comandate da Dio stesso: “Tre volte all’anno farai festa in mio onore”(Es 23, 14)“…nella festa degli azzimi, nella festa delle settimane e nella festa delle capanne…” (Dt 16, 16). Queste tre principali feste furono in qualche modo la profezia delle tre grandi feste liturgiche della Nuova Alleanza: la Pasqua, la Pentecoste e il Natale. La Pasqua e la Pentecoste cristiane mantengono anche una perfetta coincidenza di data con le antiche festegiudaiche, mentre il Natale potrebbe essere adombrato nella festa delle capanne, come segno profetico del Verbo, che ha posto la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14). La Pentecoste in particolare è la solennità del giorno cinquantesimo, che chiude le sette settimane dalla Pasqua. Anche l’estensione di queste feste nelle relative Ottave è un’eredità biblica, che evidenzia nell’insieme del complesso festale l’eminenza di tali  grandi solennità[3].

La Pentecoste nella Chiesa antica (i beati cinquanta giorni)

La caratteristica della Pentecoste cristiana rispetto a quella ebraica sta nelle parole di Tertulliano: “Noi invece, in conformità alla tradizione ricevuta, esclusivamente nel giorno della risurrezione del Signore dobbiamo guardarci non solo dal prostrarci in ginocchio ma da qualsiasi comportamento e da qualsiasi gesto cultuale che esprima angoscia e dolore…Lo stesso facciamo anche durante il periodo di Pentecoste; lo trascorriamo, a diversità degli altri periodi dell’anno, con uguale solennità e viviamo nella gioia”[4] Mentre gli Ebrei celebravano soltanto il giorno conclusivo della festa delle settimane, i cristiani celebrano come fosse un’unica festa la beata cinquantena. Il carattere festivo dell’intero tempo pasquale costituiva la novità liturgica dei cristiani: era il tempo della permanenza del Risorto con i suoi discepoli, che si sarebbe concluso con la grandiosa e mirabile effusione dello Spirito Santo. Questa beata pentecoste emergeva sovrana sul ciclo annuale e, insieme con la Quaresima che la preparava, fu il primo nucleo del nascente Anno liturgico cristiano. L’assenza del digiuno, tanto importante nell’antichità, e la preghiera in posizione  eretta, erano i segni eloquenti che connotavano la grande e protratta festa pasquale. Per questo ancor oggi la Chiesa afferma:“I cinquanta giorni che si succedono dalla domenica di risurrezione alla domenica di pentecoste, si celebrano nella gioia come un solo giorno di festa, anzi come la grande domenica” [5].

La Pentecoste nel Medioevo (solennità con ottava)

Alla fine dell’epoca antica[6] e nel corso dell’alto Medioevo si impone sempre più il carattere festivo del giorno di Pentecoste, considerato come festa rilevante in se stessa in relazione al mistero che in questo preciso giorno si compì. In tal modo la domenica di Pentecoste si staglia nella sua singolarità rispetto alle altre domeniche di Pasqua e si configura come giorno liturgico di grande solennità, oscurando in parte il suo carattere di chiusura della beata cinquantena e rallentando la sua relazione alla Pasqua[7]. (continua)

 

[1] Cfr. Rivista: Liturgia ‘culmen et fons’: Il Credo dicembre 2012 – anno 5 n. 4; Il Catecumenato, marzo 2013 – anno 6 n. 1.

[2] ANDRONIKOF, vol. II, p. 81, nota (23): “Tutta la verità è resa accessibile mediante la Pentecoste”; p. 155: “A partire dalla Pentecoste, i discepoli ricevono non solo il potere spirituale di accedere a tutto il mistero, ma anche quello di riconoscere il contenuto autentico delle parole del Lògos e quindi di proclamarle e di spiegarle”.

[3] La Pasqua si estende per sette giorni (Es 23, 14-19. 34, 18; Lv 23, 5-8; Nm 28, 16-25; Dt 16, 1-8); la Pentecoste risulta di un solo giorno (Es 34, 22-23; Lv 23, 15-22; Nm 28, 26-31); la Festa delle Capanne si estende per otto giorni (Lv 23, 33-36. 39-44; Nm 29, 12-39).

[4] TERTULLIANO, La preghiera, ed. Paoline, 1984, p. 273.

[5] Congregazione per il Culto Divino, Preparazione e celebrazione delle feste pasquali – Libreria Editrice Vaticana, 1992, p. 63, n. 111

[6] RIGHETTI, vol. II, p. 312: “Il primo sviluppo della solennità pentecostale, che ne accentuò l’autonomia liturgica, si ebbe dal costume che, sul principio del IV secolo, comincia ad imporsi, quasi come legge, di riservare alla vigilia notturna di questa solennità il conferimento del Battesimo a quelli che per qualche motivo non avevano potuto riceverlo nella notte di Pasqua”.

[7] CONSILIUM AD EXSEQUENDAM CONSTITUTIONEM DE SACRA LITURGIA, Commentarius in annum liturgicum instauratum, 21 martii 1969, in Enchiridion Vaticanum, EDB, 1990, vol. S1, n.266: “Ma quando si comunciò a celebrare la festa di Pentecoste unicamente come l’anniversario della discesa dello Spirito santo sugli apostoli (nel VII secolo) e l’unione vitale del giorno di pentecoste con il tempo pasquale andò in dimenticanza, anche alla festa di pentecoste fu assegnata un’ottava”.

LA PREPARAZIONE ALLA PENTECOSTE

I Vespri Maggiori di Pentecoste

1.  La preparazione alla Pentecoste si può dire raccomandata dal Signore stesso, che prima di ascendere al cielo, disse ai suoi Apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di rimanere in perseverante attesa dello Spirito Santo, che Egli avrebbe inviato dal Padre fra non molti giorni. Questi giorni che intercorrono tra l’Ascensione e la Pentecoste sono per la Chiesa, giorni di preghiera concorde e assidua, di ascolto della Parola di Dio e di gioiosa attesa dello Spirito Santo. Seguiamo l’esempio degli Apostoli e dei discepoli, uniti con Maria Ss. nel cenacolo. Lo Spirito Santo, che sempre il Padre manda su noi, rinnova nella celebrazione liturgica della Pentecoste l’effusione dei suoi doni.

2.  Tra le pratiche di pietà maggiormente diffuse il Direttorio sulla liturgia e pietà popolare colloca la novena di Pentecoste.

La Scrittura attesta che nei nove giorni intercorrenti tra l’Ascensione e la Pentecoste, gli Apostoli «erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la Madre di Gesù, e con i fratelli di lui» (At 1, 14), in attesa di essere «rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24, 49). Dalla riflessione orante su questo evento salvifico è sorto il pio esercizio della novena di Pentecoste, molto diffuso nel popolo cristiano.

In realtà nel Messale e nella Liturgia delle Ore, soprattutto nei Vespri, tale «novena» è già presente: testi biblici ed eucologici richiamano, in vario modo, l’attesa del Paraclito. Pertanto, quando è possibile, la novena della Pentecoste sia fatta consistere nella celebrazione solennizzata dei Vespri (dal Direttorio su pietà popolare e liturgia, Congregazione per il Culto DivinoLibreria Editrice Vaticana, 2002, p. 130, n. 155).

3.  Il rito compone insieme elementi propri dei Vespri del giorno (inno, letture breve, Magnificat, intercessioni e orazioni) con elementi, tipici dei Vespri, che provengono dall’antica tradizione liturgica della Chiesa (rito della luce e dell’incenso). La celebrazione nel suo insieme è analoga ai vespri maggiori di Avvento che preparano il Natale. I riti dell’Invitatorio sono costituiti dal lucernale, le Profezie e il rito dell’incenso.

Nel rito della luce le luci della chiesa sono alquanto ridotte per evidenziare il lucernale nel quale devono risplendere solo il cero pasquale, simbolo del Risorto, ed il braciere col fuoco, immagine dello Spirito Santo. Il fuoco verrà acceso nel contesto del rito della luce, attingendo la fiamma dal cero pasquale.

Il canto delle “Profezie”, estratto di testi biblici, riassume con sette richiami il messaggio profetico dell’Antico Testamento, relativo al dono dello Spirito Santo, effuso con abbondanza nei tempi messianici.

Il collegamento tra i riti di Invitatorio e la salmodia è costituito dall’Inno “Veni creator”; è opportuno sia cantato con solennità, ricorrendo anche alla grande tradizione gregoriana e polifonica.

La salmodia è costituita da cantici del Nuovo Testamento, in quanto la profezia antico-testamentaria è già proposta nell’Invitatorio. In tal modo è messo in luce il carattere di novità della nuova ed eterna Alleanza, inaugurata col mistero della Pasqua – Pentecoste. Le antifone e le orazioni ai cantici sono tolte da collezioni liturgiche approvate (cfr. Messa vigiliare e 1° Vespri di Pentecoste).

Le letture brevi, tratte dai classici testi di s. Paolo relativi allo Spirito Santo, sono quelle della liturgia dei vespri del giorno.

Il responsorio, nel suo versetto variabile, descrive l’azione dello Spirito Santo così come è annunziata dal Signore stesso nel vangelo di Giovanni (14-16) e offre così una sintesi degli insegnamenti di Gesù sul dono dello Spirito da lui promesso e inviato.

Il Magnificat, vertice della celebrazione, è introdotto dall’annunzio di Pentecoste, cantato o proclamato dal diacono o dal cantore o dal lettore all’ambone. Le antifone, del genere delle antifone O, sono alquanto caratteristiche: composte sui sette doni (Is 11, 2) e sui nove frutti (Gal 5, 22) dello Spirito Santo, hanno la struttura letteraria, la modalità di esecuzione e il ruolo analoghi a quelle dei vespri maggiori di Avvento.

Intonata l’antifona dal sacerdote, suona la campana maggiore fino al termine del “Magnificat” per solennizzare il cuore della celebrazione e per richiamare a coloro che stanno in casa la grande invocazione dello Spirito Santo, che l’assemblea dei fedeli compie in chiesa. Al Magnificat si accendono pure tutte le altre  luci della chiesa. Inoltre si incensa l’altare, il cero pasquale e l’immagine della Vergine.

Le intercessioni sono quelle dei vespri dei giorni, che intercorrono tra l’Ascensione e la Pentecoste.

I riti di congedo, in analogia con i vespri maggiori di Avvento, sono caratterizzati dall’Invito a Gerusalemme, ossia alla Chiesa, affinché si disponga nel giubilo ad accogliere la grande effusione dello Spirito e la universale convocazione dei popoli, che ebbe il suo esordio nel giorno di Pentecoste. I testi, diversi ogni giorno, sono estratti da varie citazioni profetiche.

La formula del congedo, infine, richiama l’invito del Signore (Lc 24, 49) stesso a rimanere in città in attesa del dono dello Spirito Santo. È in obbedienza a tale comando che l’Assemblea cristiana in questi giorni si riunisce in preghiera e gioiosa attesa.

4.  La celebrazione ha carattere solenne. Conviene che tale solennità sia evidenziata dalla convocazione di tutta la comunità parrocchiale, dalla presenza del coro, dei ministranti e dal suono delle campane. L’Eucaristia quotidiana, in questa settimana, potrà esser celebrata al mattino.

Prima della celebrazione si accende il cero pasquale. Per il rito della luce e dell’incenso occorre predisporre in presbiterio un “braciere”, in cui far ardere il fuoco, e sulla mensa dell’altare un incensiere con i carboncini accesi.

Il sacerdote indossa la stola ed il piviale prezioso di colore rosso. Il diacono la stola e la dalmatica del medesimo colore.

È bene metter in evidenza l’immagine di Maria SS., presente con gli Apostoli nel Cenacolo, o ornando con ceri e fiori l’altare principale a lei dedicato, oppure esponendo in presbiterio una sua icona.

Libretto dei Vespri Maggiori di Pentecoste nella sezione “Arretrati”

LA CENTRALITÀ DELLA CONSACRAZIONE EUCARISTICA

don Ennrico Finotti

Per Consacrazione si intende quel piccolo ‘insieme rituale’ che avvolge le parole del Signore e che si è costituito come un complesso singolare con una propria definizione, posto nel cuore della prece eucaristica, come culmen et fons della prece stessa. La liturgia romana, infatti, prevede che, giunti alla soglia della Consacrazione subentrino delle precise modalità rituali che avvolgendo e compenetrando l’atto consacratorio lo elevano alquanto, quale momento proprio del compimento del grande Mistero. Per questo il sacerdote: – sospende il ritmo celebrativo – muta il tipo di linguaggio passando dal genere narrativo al genere performativo – si inchina leggermente nel pronunziare le parole del Signore – le pronunzia con chiarezza, dignità e somma pietà – eleva le sacre specie e le adora genuflettendo. Questa ritualità mira ad affermare che ciò che le parole del Signore esprimono, qui ed ora lo realizzano.

Tutto questo sembra oggi costituire difficoltà e non è infrequente assistere alla quasi scomparsa del rito della Consacrazione, cuore del divin Sacrificio. Si notano riti consacratori furtivi, veloci, senza alcuna sospensione rituale, senza mutamento del tono di voce e con una notevole semplificazione degli atti adoranti connessi.

Si percepisce insomma un diffuso disagio nel consacrare e una incertezza o comunque perplessità nel porre con dignità, calma e stile i riti consacratori stabiliti. Si nota così una certa schizofrenia tra il senso del mistero che pure incombe e la mentalità prevalente che tende alla sua obliterazione o comunque alla sua riduzione. L’incertezza del sacerdote poi si trasmette nei fedeli presenti e il popolo non coglie più in modo netto quello che succede: se ci si trova davanti ad un evento reale oppure ad un venerabile racconto?

Il problema, di non poco conto, si deve risolvere alla radice, considerando anche i limiti dei presupposti teologici oggi alquanto diffusi. Infatti, nel dibattito postconciliare riguardo alla riforma liturgica si sono evidenziate due considerazioni vere:

1. Nei primi secoli l’intera Prece eucaristica era ritenuta consacratoria, senza preoccupazione del momento preciso in cui la transustanziazione si realizzava.

Naturalmente non mancarono mai testimonianze chiare sul valore determinante delle parole del Signore nell’attuazione del Mistero.

2.  Il confronto con la tradizione orientale ha portato positivamente a considerare l’importanza dell’invocazione dello Spirito Santo (epiclesi), che l’Oriente ritiene formalmente essenziale alla ‘metabolizzazione’ delle specie.

Questi dati sono certo preziosi e utili per assicurare aspetti teologici e liturgici di alto profilo. Infatti, l’unità e la sacralità dell’intero Canone e la forza dell’Epiclesi sono riscoperte preziose e non più rinunciabili. Tuttavia anche la tradizione occidentale ha fatto progressi teologici importanti e altrettanto irrinunciabili:

l’individuazione delle parole del Signore come forma essenziale dell’Eucaristia e la loro valenza epicletica in quanto esse stesse pervase dalla potenza dello Spirito Santo.

I pronunciamenti del Magistero della Chiesa in tal senso sono molteplici e certi. Prescindere dalla tradizione latina per un ritorno archeologico ai primi secoli o per un allineamento con la tradizione orientale non è saggio e non apporta alcun vero arricchimento né alla teologia, né all’ecumenismo, ma piuttosto sarebbe un impoverimento sui due fronti. Occorre allora accogliere di buon grado la scelta della tradizione liturgica romana ed interpretarla con coerenza celebrando con precisione e convinzione i riti che la esprimono.

È allora necessario riscoprire la bellezza della‘ grande forma’ della Consacrazione per conferire splendore liturgico al grande momento ed imprimere con una forza singolare quel senso adorante e sacrificale che oggi è debole e che una vera arte del celebrare, fedele alle indicazioni liturgiche, è in grado di suscitare.

SE TU CONOSCESSI IL DONO DI DIO – Prefazione di Aldo Maria Valli – Edizioni Chorabooks 2018

 “Sembra che oggi gran parte della liturgia, almeno nella sua attuazione pratica, si sia ridotta ai soli due movimenti kerigmatico­ catechistico ed epicletico-comunicativo con la scomparsa o la forte riduzione della posizione latreutico-contemplativa”.

Scrive così don Enrico Finotti in una delle sue risposte dedicate alla liturgia. In un primo tempo sembra linguaggio per iniziati, ma don Finotti non lascia mai i suoi interlocutori senza spiegazione. Sempre attento alle osservazioni dei fedeli, l’autore resta colpito dal fatto che una di loro mostri stupore dopo aver visto un sacerdote in preghiera, e di conseguenza si interroga: se nella liturgia la dimensione della preghiera, agli occhi di un fedele comune, non appare più come centrale, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Perché la liturgia è per sua natura preghiera pubblica. E allora ecco la spiegazione: oggi la liturgia privilegia i momenti in cui il sacerdote si rivolge al popolo per annunciare la parola di Dio (posizione kerigmatica) e quelli in cui si volge ai fedeli per agire su di loro con i medesimi gesti di Gesù (posizione epicletica), ma non favorisce i momenti in cui il sacerdote, rappresentando il Signore alla testa del popolo (posizione latreutica), dovrebbe rivolgersi a Dio come l’assemblea e guidare i fedeli nella lode e nell’adorazione.

Nella liturgia attuale c’è dunque come uno scompenso, un disequilibrio, ed è evidente che tutto ciò ha a che fare con la posizione del sacerdote. Una posizione che, nella liturgia riformata dal Concilio Vaticano II, è funzionale all’idea di Messa intesa come mensa, ma non come sacrificio.

Chi difende la riforma voluta dal Concilio accusa facilmente di “tradizionalismo” tutti coloro che si pongono il problema della posizione assunta dal sacerdote durante la Messa. Ma non si tratta di nostalgia e non è una fissazione. Si tratta invece di entrare nel significato profondo dell’azione liturgica. E, se si fa questo passo, la questione del conversi ad Dominum non può non apparire come decisiva. Come scrive bene don Finotti, “si deve riconoscere che celebrare la parte sacrificale della Messa (dall’offertorio alla comunione) rivolti nel medesimo senso verso il quale guarda l’intera assemblea, secondo la tradizione costante della Chiesa, suscita in modo immediato ed efficace quel comune (sacerdote e popolo) guardare ad Deum che è costitutivo della liturgia”.

Le domande che i fedeli pongono al liturgista sulla rivista Liturgia: culmen et fons riguardano un po’ tutto: dalla veglia di Natale alla Via Crucis, dalle feste patronali alla settimana per l’unità dei cristiani. Inoltre molti desiderano entrare nel dettaglio delle questioni, interrogandosi in modo sempre più specifico. Per esempio: che cos’è precisamente un rito e quali sono le sue componenti? Chi gestisce le regole della liturgia rinnovata? Qual è l’importanza dell’abito sacerdotale? Che fine ha fatto la liturgia delle ore?

Il pregio di don Finotti sta nella capacità di unire rispetto del sacro e buon senso. La parola chiave è equilibrio. Che significa rispettare la gerarchia dei valori. Alla Messa si va non per mettere in scena una cena, ma per rinnovare il sacrificio eucaristico. Non si va per esibire la creatività umana, ma per rendere gloria a Dio. Non si va per gratificare il protagonismo del sacerdote o dell’assemblea, ma per pregare e adorare. Solo se i valori vengono messi nella giusta gerarchia l’azione liturgica che ne scaturisce risulta corretta.

Importanti sono le parole che don Finotti dedica all’equivoco circa l’autenticità della liturgia, come se autentico corrispondesse a spontaneo. Rispondendo a una domanda che parla del mito dell’ “animazione” della Messa, mito modernista che è fonte di infiniti abusi, l’autore spiega: “Autentico non è ciò che è spontaneistico e irriflessivo, ma l’autenticità esige adesione alla verità e forza di volontà per realizzare nelle opere lo splendore del vero, del buono e del bello. L’oggettività è quindi una condizione imprescindibile dell’autenticità, che è invece inquinata da un soggettivismo sterile privo di ogni riferimento veritativo. La vera autenticità è il frutto maturo di un itinerario che implica la ricerca intellettuale, la formazione spirituale e l’esercizio della volontà. La disciplina e il sacrificio nella costante obbedienza alla Chiesa sono condizioni necessarie per raggiungere tale virtù, mantenerla e difenderla. L’errore in tale materia provoca una disaffezione per l’intero impianto liturgico oggettivo della Chiesa (Messa, sacramenti, sacramentali, anno liturgico, ecc.) e una sostituzione a tutto campo con creazioni soggettive private o comuni, una ‘liturgia’ soggettivistica che non rappresenta il pensiero di Cristo, non contiene il suo mistero e perciò non salva. Essa è in fin dei conti un atto idolatrico e una pia illusione, il riflesso sempre cangiante dei propri sentimenti e delle sensibilità del ‘gruppo celebrante’. Ma così la dimensione soggettiva e privata del gruppo ha preso il posto di quella oggettiva e pubblica del popolo, quale referente primario della liturgia”.

Credo che queste parole andrebbero stampate e distribuite in tutte le chiese, a beneficio dei fedeli ma anche dei sacerdoti. In nome del mito dell’animazione liturgica (del tutto arbitrario e fondato unicamente sul protagonismo umano) c’è stata un’imposizione dello spontaneismo. Sembra un controsenso, eppure è ciò che è avvenuto.. E i risultati sono sotto gli occhi, e le orecchie, di tutti.

Ovviamente la liturgia spontaneista va di pari passo con l’immagine di un Dio buonista, come nota giustamente un lettore che scrive: “Siamo ormai impregnati di una concezione riduttiva del concetto di Dio:un Dio buonista che ha deposto ogni sua maestà e che sollecita una confidenza quasi banale”. E a questo Dio buonista ci si accosta, di conseguenza, “col linguaggio feriale e immediato, non più attento al senso dell’adorazione che fu richiamato a Mosè presso il roveto ardente”.

È drammaticamente vero. E di questa incapacità di distinguere il sacro dal profano fa le spese la liturgia. Il che non è problema formale, perché quando si parla di liturgia la forma è sostanza.

E qui don Finotti va dritto al nocciolo della questione: “È un dato constatabile che è ormai molto diffusa una mentalità buonista su Dio per cui Egli è ritenuto così disponibile a noi e così facilmente accessibile da negare ogni sforzo di purificazione e di ricerca nel conoscere la sua volontà, discernere la sua parola e seguire le sue leggi. Un Dio buonista, facile nel rapporto e privo di ogni oscurità , diventa il riflesso della nostra psicologia, illudendoci davanti ad un idolo frutto della nostra fantasia. Un’idea a buon mercato di un Dio del tutto asservito ad ogni nostra inclinazione talvolta viene giustificata con il ricorso al termine evangelico Abbà, quasi che questa confidenza eliminasse ormai ogni residuo di maestà, di grandezza e di mistero. Un Dio così prossimo a noi da essere del tutto fungibile ad ogni nostra estrosità diventa un ‘dio fai da te’, che in definitiva ammette ogni capriccio della nostra fragile e contorta psicologia. Con una simile visione di Dio ogni forma liturgica è compromessa fin dalle sue radici più profonde in quanto il soggettivismo estremo intacca le basi stesse della spiritualità e del concetto di Dio e del rapporto intimo con lui nella vita spirituale”.

Occorre riconoscere che, oggi, ci vuole del coraggio per parlare così. Ma ilnodo sta tutto qua. Il degrado nell’azione liturgica è frutto di una teologia distorta, che ha messo l’uomo, e non Dio, sull’altare. Una teologia che chiede di celebrare l’uomo, non Dio.

Scrive ancora don Finotti : “Se si perde il senso interiore dell’adorazione e della soggezione alla maestà di Colui che rimane sempre ineffabile e al di là della nostra portata, non ci si può aspettare una forma liturgica conforme a precise regole oggettive e ispirata al gusto della grandezza e del mistero, connaturale alla forma classica della liturgia della Chiesa nell’intero arco della tradizione. È allora evidente che tutti coloro che sono vittime di una simile visione preferiscano lo spontaneismo, fuggano ogni sottomissione a norme rituali, e ritengano autentica una celebrazione il più possibile libera come la Messa celebrata in un prato o in un contesto ricreativo. La libertà estrosa del rapporto interiore con Dio privo di ogni orientamento oggettivo, di ogni verifica dottrinale conforme ad una sana ortodossia e di una consonanza con la tradizione disciplinare maturata nei secoli, si riflette in una liturgia in accordo con questo fragile stato interiore, che si declina nelle espressioni più disparate e contraddittorie che scaturiscono da una spiritualità già malata e selvaggia fin nei reconditi sentimenti dell’anima. La infinita bontà e misericordia di Dio non possono mai essere disgiunte dalla sua giustizia, la sua vicinanza e accondiscendenza non possono mai spogliarsi dalla sua maestà e il rispetto dei diritti divini non può mai essere disatteso impunemente dalla creatura, che ‘senza il creatore svanisce’ (GS36). Quindi la celebrazione retta della liturgia non può mai prescindere dal retto concetto di Dio e dalla recezione completa e sinfonica dei suoi attributi divini. La sana teologia sta quindi sempre alla base di una retta liturgia”.

Che cosa aggiungere? Soltanto un sentito ringraziamento a don Enrico Finotti per questo suo servizio alla verità.

Aldo Maria Valli