RIFORMA NELLA CONTINUITÀ (seconda parte)

don Enrico Finotti

Il rifiuto di celebrare presso i luoghi celebrativi storici nelle nostre Chiese, dopo la riforma liturgica, è stato un abuso che ha provocato danni profondi nella mentalità del popolo di Dio, oltre che fornire l’occasione di compiere gravi danni al patrimonio artistico delle nostre chiese. Se, invece, si fosse continuato ad usare con fedeltà i luoghi celebrativi storici, conformandosi al genio artistico proprio di ciascuna chiesa, il passaggio sarebbe avvenuto nella continuità della tradizione.

Occorre perciò ritrovare l’equilibrio e adeguare il novus ordo alla situazione liturgica e artistica della maggioranza delle nostre chiese, ritornando a celebrare con dignità nei luoghi liturgici classici, riutilizzandoli con intelligenza, equilibrio, moderazione e serenità d’animo. Una situazione diversa si prospetta per le nuove chiese, che tuttavia non possono essere progettate con una creatività totale, sciolta da ogni vincolo tradizionale, liturgico e teologico.

Quali furono le cause di questa applicazione rivoluzionaria della normativa liturgica? Qualche riflessione potrebbe essere interessante:

 1.  Le disposizioni contenute nella prima edizione delle Premesse al Messale Romano (1970) in ordine ai luoghi celebrativi (Praenotanda, cap. 5°: Disposizione e arredamento delle chiese per la celebrazione dell’Eucaristia, nn.253-280) sembrano riguardare esclusivamente una chiesa di nuova costruzione e non tenere presente a sufficienza la situazione delle chiese tradizionali. Ora, pochissime comunità sono alle prese con una nuova chiesa o con chiese di recente costruzione. La maggioranza delle comunità cristiane, infatti, celebra in chiese storiche, legate intimamente alle caratteristiche proprie del loro stile. È evidente che nessuno può pensare di attuare una rivoluzione architettonica e liturgica nella grande maggioranza delle chiese paleocristiane, romaniche, gotiche, rinascimentali, barocche, ecc., soprattutto in considerazione del loro valore artistico, storico, spirituale e liturgico. Esse dovranno essere conservate nella loro integrità, secondo il genio dell’epoca in cui furono edificate.

Per la maggioranza dei fedeli si tratta dunque di celebrare la nuova liturgia in chiese che non potranno mai essere radicalmente ‘adeguate’ e il novus ordo deve poter essere applicato ivi in modo rispettoso, senza ricorrere ad interventi radicali ed inopportuni. Tuttavia, avere a disposizione nelle Premesse al Messale una normativa che teneva presente unicamente la configurazione di una chiesa nuova, potrebbe essere stato insufficiente per impostare l’adeguamento liturgico nel senso della continuità. Molte volte, purtroppo, si trasferirono in modo letterale e diretto queste disposizioni generali, imponendole drasticamente alle chiese tradizionali. Sarebbero state invece opportune delle indicazioni più complete e flessibili, mirate a salvaguardare la continuità e il valore dei luoghi celebrativi precedenti, consacrati da una secolare tradizione, affermandone la loro validità e complementarietà rispetto alle nuove normative: voci diverse di una ricchezza liturgica inesauribile e creativa. Sembra, al contrario, che un protratto silenzio abbia favorito un’applicazione forzata delle nuove rubriche, avallando un certo sospetto e sfiducia nelle strutture liturgiche preesistenti, ereditate dalla tradizione e ritenute valide da tutti fino al Concilio.

2.  Una mentalità pregiudiziale, infatti, ha in parte condizionato l’applicazione della riforma liturgica. Si tratta di un giudizio critico e di una mentalità sospetta sulla liturgia e sull’edificio sacro preconciliari, quasi che essi fossero l’espressione di una secolare deviazione dalla norma classica della liturgia e il segno, ormai alquanto sedimentato, di un processo di corruzione della forma autentica della liturgia latina. Di contro vi è stata una apertura entusiasta e talvolta ingenua alla nuova liturgia, come riscoperta del vero culto ecclesiale, che doveva essere attuata con il massimo zelo pastorale. In tale visione non poteva venir considerato il valore della continuità storica della liturgia e ancor meno essere valutato il genio proprio di secoli, di visioni teologiche e situazioni Ecclesiali, che vennero annoverati superficialmente come periodi di decadenza. Fu facile cadere nella tentazione di credere che la riforma liturgica fosse un nuovo inizio e che tutto l’esistente fosse da ripensare o correggere.

Questa mentalità, comprensibile, ma ingiusta, condizionò alquanto il processo di eccessiva spinta verso una liturgia sempre più attualizzata, ma anche sempre più lontana dalle basi tradizionali che dovevano assicurare quella continuità sostanziale che ne garantiva l’identità e la validità dei suoi contenuti.

Il Magistero della Chiesa tuttavia seppe contenere nei giusti limiti il processo di riforma e fissarlo nelle sue coordinate essenziali.

In realtà il culto liturgico della Chiesa è sempre stato in ogni epoca uno strumento valido e legittimo di efficace santificazione del popolo cristiano. È tuttavia evidente che nella sua espressione umana anche la liturgia ha subito l’influsso sia del genio e della sapienza dei santi e dei grandi dottori, sia della  mediocrità e della debolezza degli uomini peccatori. In tal senso essa è semper reformanda come la stessa Chiesa.

Siffatta continuità sostanziale della liturgia, che si snoda nel flusso dei secoli, deve essere percepita dal popolo di Dio e in tal modo potrà essere apprezzato con gratitudine l’apporto valido di tutte le generazioni cristiane, anche di quelle, che una visione talvolta miope, ritiene del tutto superate o troppo lontane dalla nostra sensibilità attuale. È su questa base che sarà possibile un rinnovato e proficuo incontro tra l’esperienza odierna della recente riforma liturgica e la grande tradizione dei secoli.

3.  Una ulteriore causa potrebbe essere il vasto decentramento nell’applicazione della riforma liturgica, affidata ad una molteplicità di commissioni periferiche: dalle Conferenze episcopali alle singole diocesi. Questo poliedrico decentramento ha accolto sul piano concreto visioni discordanti e realizzazioni affrettate, talvolta senza sufficiente riflessione, gradualità e sapienza pastorale. Ciò ha consentito una larghissima sperimentazione, non sempre in linea con le disposizioni della Chiesa e con una corretta interpretazione della stessa riforma liturgica.

L’ampio ventaglio degli organi applicativi ha pure favorito una certa anarchia nella quale anche ogni singolo sacerdote si sentiva autorizzato ad intervenire secondo una creatività del tutto soggettiva e locale. In tal modo chiunque ed ovunque poteva fare qualsiasi cosa. In una simile contingenza la mentalità pregiudiziale della rottura col passato e la creatività, senza riferimento alle leggi contenute nei libri liturgici, ebbero libero campo. Una normativa generale più precisa e dettagliata, unita ad interventi più regolari e pertinenti da parte dell’autorità, avrebbero potuto forse contenere maggiormente le deviazioni.

In questo stato di cose e alla luce degli effetti di una attuazione sconnessa della riforma liturgica cosa è possibile fare oggi?

La nostra rivista ha carattere culturale e non ha titolo di intervento nel campo delle disposizioni pastorali, che competono esclusivamente all’autorità ecclesiastica. Essa tuttavia cerca di mettere in luce alcuni temi, suscitare interessi, aprire orizzonti di indagine, creare mentalità, condividere auspici, dibattere problemi, ecc.

A cinquant’anni dal Concilio è possibile avere una visione più equilibrata e disincantata della riforma liturgica, riconducendola dentro i giusti limiti di equità, buon senso ed apertura mentale.

In sintesi potremmo offrire tre indicazioni che riteniamo necessarie per suscitare una rinnovata mentalità capace di mantenere il senso vivo della riforma nella continuità , scongiurando qualsiasi pericolo di rottura con la tradizione ed ogni chiusura preconcetta verso un legittimo e coerente progresso:

1.  è necessaria una visione ampia e positiva dello sviluppo del culto nella storia della Chiesa, che senza negare o minimizzare i limiti, consideri il valore sostanziale e indefettibile della liturgia, superando quei pregiudizi ideologici, che sono il frutto di visioni teologiche, spirituali, storiche ed ecclesiali parziali o erronee. Occorre, dunque, saper accogliere ed apprezzare il genio dell’Oriente e dell’Occidente, dell’antichità e della modernità, del romanico e del barocco, del gotico e del rinascimentale, ecc. Solo con questa apertura mentale sarà possibile una riconciliazione con gli edifici sacri di tutte le epoche e con le molteplici forme liturgiche prodotte nei secoli e sempre valide, pur nella loro diversa attualità e opportunità: apporti differenti e complementari per esprimere il mistero, che resta sempre ineffabile.

2.  Non si dovrà allora tornare a stravolgere la disposizione interna delle chiese storiche, quanto piuttosto celebrare il novus ordo con quella elasticità che lo caratterizza e che consente di adattare i nuovi riti alla fisionomia specifica dei luoghi celebrativi propri di ciascuna chiesa, senza forzature stridenti ed inopportune: l’altar maggiore nelle chiese storiche col suo orientamento ad Deum completa e arricchisce l’altare ad populum nelle chiese recenti; il tabernacolo monumentale sull’altare centrale sottolinea un aspetto valido e complementare al tabernacolo disposto nella apposita cappella; il pulpito, che può essere adattato per la proclamazione solenne del vangelo, si compone con l’ambone usato ordinariamente; la balaustra mantiene sempre il suo scopo classico di distinzione e protezione dell’area presbiteriale; la cantoria e l’organo possono assolvere ancora un servizio in solenni celebrazioni, nelle quali la Schola sappia comporre con equilibrio e competenza le pagine più valide del patrimonio musicale della Chiesa con le esigenze del novus ordo; il confessionale storico richiama il senso sacro del sacramento della penitenza che non può ridursi ad un dialogo psicologico-umanitario; il battistero alla porta della chiesa invita ad un cammino processionale e richiama l’inscindibile rapporto con l’atrio e l’ingresso; ecc.

Naturalmente è all’autorità della Chiesa che compete sia l a valutazione come l’effettiva attuazione di eventuali ed ulteriori disposizioni in materia di riforma liturgica. Senza la sua guida anche la liturgia, come la dottrina e la pastorale, sarebbe preda di scuole private e verrebbe gestita da leaders contingenti.

3.  La recente riforma liturgica del Vaticano II non deve essere considerata come un mitico inizio dell’unica forma autentica della liturgia, finalmente ritrovata, né essere ritenuta una conquista ormai insuperabile, quasi a stornare ogni tentativo di ripensamento verso un ulteriore cammino di ricerca. L’ordo vigente non è che una delle tante tappe del percorso storico della liturgia: una forma che non è ancora stata sufficientemente verificata nel tempo e sotto tutti gli aspetti (teologico, liturgico, spirituale, pastorale, ecc.).

L’apertura serena e motivata ad intraprendere emendamenti, potenziamenti, ulteriori indagini, migliori sintesi e più m irate s celte, è un atteggiamento di vigilanza intellettuale e di sensibilità pastorale, non una forma patologica tipica di nostalgici o detrattori del Concilio. È evidente che una simile apertura deve essere sempre accompagnata da una adeguata formazione liturgica condotta su basi oggettive e coniugata costantemente con la imprescindibile docilità alle prescrizioni della Chiesa e del suo Magistero. Il papa Benedetto XVI, già da cardinale, ebbe modo di esprimersi ripetutamente in ordine ad una riforma liturgica sempre più attenta e rispettosa del mirabile mistero che essa contiene e trasmette:

«[Occorre] un nuovo dibattito più disteso, nel corso del quale sia possibile cercare il modo migliore per mettere in pratica il mistero della salvezza. Tale ricerca va compita non condannandosi reciprocamente, ma ascoltando attentamente gli uni gli altri e, fattore ancor più importante, ascoltando la guida intima della liturgia stessa. Non si giunge ad alcun risultato etichettando le posizioni come‘preconciliari’, ‘reazionarie’, ‘conservatrici’ oppure come ‘progressiste’ ed ‘estranee alla fede’; serveuna nuova apertura reciproca alla ricerca del migliore compimento del memoriale di Cristo» (in U.M. LANG, Rivolti al Signore, Prefazione p. 8).

IL CULTO GRADITO A DIO

“Sono un lettore assiduo della vostra rivista e vi ringrazio per la preparazione e la chiarezza che sapete offrire sui vari argomenti. Ma ogni volta che ricevo la rivista, dopo aver letto con interesse e curiosità gli articoli, mi chiedo: Come dire queste cose agli altri e come realizzare ciò che viene suggerito? Eppure dite la verità e sento che è questa la strada giusta, perché, e voi lo dimostrate, questa è la visione della liturgia secondo il pensiero della Chiesa… In realtà voi vi riferite sempre alle leggi liturgiche stabilite dalla Chiesa, ma è appunto queste leggi che fanno problema perché sembra che tutto debba essere libero, spontaneo e continuamente variabile… Tutto vero ciò che dite, ma quanti raccolgono questi insegnamenti? … Condivido con voi questa ardua missione!” (Un giovane parroco)

La crisi culturale odierna ha la sua radice ultima nel soggettivismo che vuole opporsi alla visione oggettiva della realtà. La crisi della ragione che non è più ritenuta capace di cogliere la realtà nella sua dimensione oggettiva e ancor meno di raggiungere le verità assolute trascendenti (metafisica) mina alle basi la possibilità di una teologia razionale e oggettiva e per ciò stesso sicura e condivisa. La crisi della fede che, senza un fondamento razionale scade in un fideismo sterile, non prevede contenuti certi e dogmi dichiarati e insuperabili, ma si riduce ad un vago e vaporoso sentimento religioso.

Infine la morale non accetta più il suo fondamento oggettivo nella legge naturale impressa dal Creatore nelle sue creature, ma pretende una continua revisione ideologica a seconda delle situazioni e dei desideri contingenti. In questo impressionante quadro di totale insicurezza culturale anche la lex credendi, la lex orandi e la lex vivendi trasmesse fedelmente dalla tradizione cristiana sono alquanto insidiate e non hanno più una cordiale accettazione da parte degli stessi fedeli.

Qui, dunque, si può capire il motivo per cui la liturgia intesa nella sua forma oggettiva nella coerente continuità con la tradizione pur nello sviluppo omogeneo delle sue parti, non abbia la dovuta considerazione. Il soggettivismo imperante ed esteso in tutte le dimensioni umane fondamentali, razionale, spirituale e morale non consente un’assunzione serena della forma oggettiva della liturgia che suppone precise leggi, chiare strutture rituali e ben definiti contenuti eucologici.

A questo punto occorre rientrare in se stessi, guardare in faccia il problema, approfondire l’argomento e fare una scelta coerente. Infatti, la lex credendi, come la lex orandi e la lex vivendi non sono lasciate al capriccio soggettivo, ma appunto in quanto lex sono intrinsecamente costituite da norme oggettive, nella loro sostanza valide per tutti e in ogni epoca. I riti liturgici in particolare sono tali proprio perché riconosciuti dalla Chiesa, approvati e pubblicati nei suoi libri liturgici.

È questa assunzione, riconoscimento, approvazione e codificazione da parte della Chiesa che stabilisce la natura liturgica di un atto cultuale e ne garantisce la sua efficacia davanti a Dio, alla Chiesa nella sua universalità e ad ogni fedele che si unisce alla celebrazione della liturgia. Una mentalità soggettivistica non potrà far altro che fuggire la liturgia ed esercitare il culto fuori di essa in una permanente precarietà creativa e senza alcuna garanzia soprannaturale.

Tale atteggiamento porterà ad uscire anche dalla lex credendi perdendo il dogma della fede e dalla lex vivendi travolti dal turbine infido e mutevole di una coscienza lasciata a se stessa ed esposta ad ogni aberrazione. Non è certo questa la via di Dio e la strada della salvezza.

La legge divina presiede all’atto originale della creazione ed è il contenuto della rivelazione in ogni sua fase dall’Antico al Nuovo Testamento. La legge evangelica porta a compimento quella antica (Mt 5, 17) e riconduce a quella delle origini (Mt 19, 8). Nulla è caotico, ma tutto è coerente e significativo nell’opera di Dio, il quale è Logos sussistente e dal quale ogni creatura riceve una reale partecipazione alla sua impronta razionale: … a immagine di Dio lo creò (Gen 1, 27).

Solo su questa base teologica sarà ancora possibile celebrare la sacra liturgia in perfetta osservanza delle sue leggi e in piena conformità al suo spirito.

RIFORMA NELLA CONTINUITÀ (prima parte)

don Enrico Finotti 

Il Magistero della Chiesa, sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha messo in luce la necessità di coniugare il progresso dottrinale e la riforma pastorale, effettuati dal Concilio, con la continuità della vita della Chiesa nell’arco dei secoli, evitando ogni pericolo di rottura, sia in senso modernista, sia in senso tradizionalista. 

In questa luce è doveroso verificare anche la riforma liturgica e la sua concreta attuazione dagli anni postconciliari fino ad oggi per poter celebrare bene il culto divino, conoscerne adeguatamente la teologia, correggere coraggiosamente gli abusi e promuovere una sempre più degna celebrazione dei santi misteri.

Una prima considerazione deriva da una situazione verificatasi, soprattutto nell’immediato postconcilio, in tutta la Chiesa, anche se con intensità e caratteristiche diverse nelle varie aree.  Nell’applicazione concreta delle nuove disposizioni liturgiche si è prodotta in molti casi una discontinuità a tutto campo, che interessò pressoché tutti i luoghi celebrativi all’interno delle chiese storiche:

 1. L’altare maggiore fu quasi universalmente abbandonato e sostituito con un altare alternativo, perlopiù posticcio. In questo modo rimasero inutilizzati i monumentali altari della gran parte delle chiese. Essi furono ritenuti inabili fondamentalmente per due motivi: per l’impossibilità di poter celebrare la Messa rivolti al popolo e per l’eccessiva distanza fisica dall’assemblea. La determinazione e la fretta con le quali avvenne il cambiamento provocarono nei fedeli un sentimento di rottura con la tradizione e l’emarginazione repentina dell’altare tradizionale apparve come un segno della discontinuità, proprio nel cuore stesso della liturgia, il Sacrificio divino. Tale situazione perdura ancor oggi, e, dopo cinquant’anni, sembra si stia risvegliando l’interesse per riprendere una adeguata riflessione in merito. Questa rinuncia all’uso dell’altare maggiore storico rimane, comunque, il segno più evidente di una discontinuità tra il prima e il dopo.

2.  Il tabernacolo, posto al centro dell’altare maggiore, è stato vuotato e abbandonato in nome di una posizione laterale del SS. Sacramento. I fedeli osservarono con una certa sorpresa il Santissimo in un tabernacolo minore, confinato in un angolo talvolta angusto della chiesa, e si domandavano il motivo per il quale il tabernacolo storico, splendido e grandioso dovesse rimanere vuoto. Ciò contribuì a ridurre il senso dell’adorazione e del culto eucaristico e a diffondere il pregiudizio che la precedente tradizione fosse ormai inadeguata.

3.  La balaustra fu rimossa con decisione, ritenendo che questo fosse un procedimento del tutto normale, sia in nome del nuovo modo di ricevere la santa Comunione, sia per togliere ogni barriera tra la navata e il presbiterio. Anche questo fatto però ebbe un effetto di rottura con la precedente tradizione, che sempre aveva mantenuto vari elementi di protezione dell’altare e del suo ambito sacro.

4.  Il pulpito fu dismesso in modo ancora più radicale ed universale, senza premettere una saggia verifica di un possibile suo impiego nella liturgia rinnovata. Il ricorso a leggii mobili ha però abbassato la dimensione solenne della proclamazione liturgica della Parola di Dio e ha cancellato, con la rimozione affrettata di molti pulpiti, la testimonianza plastica della costante considerazione che la Chiesa ha sempre avuto per la predicazione. Occorre riconoscere che l’introduzione dei microfoni aveva già innescato un processo di ricorso esclusivo alla funzionalità, a scapito del simbolo e della dignità della celebrazione.

5.  Il battistero fu quasi generalmente abbandonato in nome della visibilità dell’intero rito del battesimo. L’effetto fu la chiusura del battistero storico, il posizionamento del fonte in luoghi impropri e non di rado l’uso permanente di un bacile mobile.

6.  La cantoria classica fu ritenuta non più conforme al novus ordo e sostituita con altri spazi, spesso architettonicamente e funzionalmente inadeguati alle chiese tradizionali. La schola cantorum scese nella navata, ma non raramente distolse l’attenzione dei fedeli e fece barriera tra l’assemblea e l’altare. L’organo subì delle forzature, o venendo ricollocato in luoghi non adatti all’architettura della chiesa, oppure, nella maggioranza dei casi, venendo sostituito con altri strumenti e usato solo per concerti. Connesso a questo è il problema del radicale abbandono dell’antica tradizione musicale (gregoriano e polifonia) e il subentro quasi esclusivo di prodotti moderni, ancora privi di una adeguata verifica. Ciò ha creato un profondo senso di rottura con la tradizione liturgica precedente, imponendo nella mentalità comune un pregiudizio sistematico e acritico, secondo il quale l’intero patrimonio della musica sacra del passato sarebbe del tutto superato. Il collasso di gloriose corali e il vuoto che ne conseguì ne fu il frutto amaro.

7.  Il confessionale poté sembrare quasi offensivo della dignità della persona e fu sostituito, sia nella penitenza individuale, sia nelle celebrazioni comunitarie, da una conversazione personale e dialogica, fatta in uno spazio qualsiasi della chiesa, senza riguardo per la scelta di un luogo celebrativo specifico e degno. E’ raro ancor oggi l’uso del confessionale nell’Iniziazione cristiana dei fanciulli e nelle celebrazioni penitenziali. La ristrutturazione di molti confessionali non è sempre possibile e allora si continua a celebrare il sacramento in luoghi alternativi. Ma in questo modo anche il luogo tradizionale della Penitenza appare non più conforme al vigente rito.

8.  Gli altari minori, in generale, hanno di fatto perso ogni funzione liturgica e in parte anche devozionale. Con il principio ‘dell’altare unico’ la loro presenza fu ritenuta difforme dall’autentica tradizione liturgica e con la considerevole riduzione delle devozioni ai Santi l’unico valore superstite finì per essere quello artistico: la museificazione ne fu effetto conseguente. Non sono da sottacere, purtroppo, anche gravi lesioni a talune loro parti strutturali (rimozione della predella o della mensa) e al loro arredo sacro (candelabri, reliquiari, lampade, tovaglie, ecc.).

9.  La navata non raramente fu privata degli inginocchiatoi ad uso dei fedeli, in nome di un maggior spazio, ma in realtà per una mentalità contraria al valore dello stare in ginocchio. E così anche i fedeli furono confusi, non potendo più compiere adeguatamente tutti gli atti rituali previsti.

10.  L’addobbo tradizionale, conforme ai diversi stili artistici e gusti estetici, subì una quasi totale estinzione in nome di una malintesa ‘semplicità’ e le chiese furono ridotte ad una perenne spogliazione, senza differenza tra le solennità, le feste, i giorni di penitenza e i diversi tempi liturgici. La perdita di splendidi arredi fu la conseguenza e un grigiore permanente mantiene ancor oggi le chiese in un clima di noiosa ferialità. La stessa alienazione, senza discernimento, di solenni apparati per l’esposizione eucaristica e l’emarginazione quasi totale dei paramenti preziosi si inseriscono in questo vortice riduzionistico, che non poté che essere agli occhi dei fedeli la celebrazione della rottura.

Tutte queste sostituzioni, spesso affrettate e radicali, hanno causato nel popolo di Dio l’idea che tutto dovesse cambiare. Nelle chiese storiche, infatti, ogni ambiente si trovò sfasato rispetto al nuovo modo di celebrare e nessun luogo tradizionale sembrava essere ancora adatto alle nuove esigenze liturgiche. Della chiesa rimaneva solo l’edificio, ma l’intero complesso dell’arredo interno sembrava ormai inabile ad assolvere le indicazioni del novus ordo voluto dal Concilio.

Purtroppo questo è stato un abuso e ha provocato danni profondi nella mentalità del popolo di Dio, oltre che fornire l’occasione di compiere gravi danni al patrimonio artistico delle nostre chiese. Se, invece, si fosse continuato ad usare con fedeltà i luoghi celebrativi storici, conformandosi al genio artistico proprio di ciascuna chiesa, il passaggio sarebbe avvenuto nella continuità della tradizione.

Occorre perciò ritrovare l’equilibrio e adeguare il novus ordo alla situazione liturgica e artistica della maggioranza delle nostre chiese, ritornando a celebrare con dignità nei luoghi liturgici classici, riutilizzandoli con intelligenza, equilibrio, moderazione e serenità d’animo.

Una situazione diversa si prospetta per le nuove chiese, che tuttavia non possono essere progettate con una creatività totale, sciolta da ogni vincolo tradizionale, liturgico e teologico. (continua)

L’ ‘ARTE DEL CELEBRARE’ NEL CUORE SACRATISSIMO DI GESÙ

DON ENRICO FINOTTI

 

L’ ars celebrandi è una questione di amore. Il cuore del sacerdote dev’essere plasmato in modo soprannaturale dalla potenza del Cuore di Gesù, in modo da poter dire con l’Apostolo “non sono più io che vivo, ma Cristo in me”.

Riscoprire il sacerdozio cattolico significa confrontarsi con la dottrina della Chiesa che lo delinea nelle tre potestà, che sono proprie del Signore Gesù e che sono state partecipate in modo sacramentale ai suoi ministri. Il munus docendi, santificandi e gubernandi sono atti soprannaturali che il Risorto continua ad esercitare nella sua Chiesa, attraverso coloro che sono a Lui assimilati, mediante l’Ordine sacro, e che agiscono ‘in persona Christi’.

IL SILENZIO E LA DEVOZIONE…

 

In passato i sacerdoti mostravano un rispetto sacro delle norme liturgiche e traspariva in loro il timore di non averle osservate in modo preciso. Questo loro esempio suscitava anche in noi fedeli i medesimi sentimenti e si stava in chiesa in silenzio e con devozione. Oggi non esiste più niente di questo. Va bene tutto e il suo contrario e qualora si dovessero fare delle osservazioni si è pure rimproverati (Un sacrista).

Questa situazione è il sintomo della caduta totale del diritto liturgico, che non risparmia gli edifici e i luoghi di culto; i ministri sacri nel loro abbigliamento, linguaggio e comportamento; i riti con le loro leggi, ritmi e simboli; ecc. Tutto è abbandonato ad uno spontaneismo senza freno, che viene pure ritenuto liberante e autentico. In realtà il sacrum liturgico viene sostituito fatalmente dal più gretto costume profano intessuto di secolarizzazione e di luoghi comuni propri della mentalità mondana e terrenista. Il collasso del soprannaturale è drammatico e il respiro dell’eterno è estinto. Il funzionalismo esasperato di una prassi sociologica travolge ogni prospettiva mistica e la salus animarum lascia il posto alla ‘promozione umanitaria’ di un mondo senza Dio e chiuso nell’orizzonte materiale.

Come uscire da questa situazione? Con una coraggiosa e precisa osservanza del diritto liturgico.

Quando in un campo riarso la terra sterile non produce più niente se non sterpi, basta una copiosa irrigazione perché riprenda vita e la vegetazione diventi rigogliosa. Così se sul terreno sterile di una liturgia profanata e secolarizzata si riprende con determinazione ad osservare il diritto liturgico in ogni sua parte subito la celebrazione si rianima, si riveste di sacralità e trasmette con mirabile efficacia la Grazia divina.

Il diritto liturgico, infatti, è il canale della grazia soprannaturale, che si riversa copiosa attraverso le mediazione dei riti e delle preci stabilite dal Signore e dalla sua Chiesa.

Allora quando i luoghi sacri saranno avvolti dal silenzio, i sacri ministri rivestiti con i loro nobili abiti liturgici, i riti svolti con gravità interiore ed esteriore, le preci elevate con solenne maestà, i canti e la musica ispirati alla verità e alla santità del dogma; quando ogni cosa sarà resa docile al diritto stabilito da Dio e conforme alla tradizione ricevuta dai Padri come parte sostanziale del depositum fidei; allora il popolo cristiano sarà rispettato nei suoi diritti di popolo sacerdotale e sarà condotto da pastori fedeli a risalire dalle cose visibili fino alla contemplazione di quelle eterne. 

LE TRE ‘SCHOLAE’: ACCOLITI, LETTORI, CANTORI

Tutti ministri di ogni ordine e grado hanno un intrinseco legame di comunione che li configura come dei corpi coesi per l’esercizio di un ministero liturgico pubblico e comunitario.

In tal senso si parla di “ordini”, cioè di un insieme ordinato di ministri che operano in sintonia, nell’azione rituale. Così si può parlare di: ordo Episcoporum, ordo Presbyterorum, ordo Diaconorum, ma anche di ordo lectorum, ordo accolitorum e ordo cantorum.

La liturgia solenne della Cattedrale si caratterizza appunto per lo splendore, la compattezza e la dignità di questo insieme di ordini relativi ai diversi ministeri: il Vescovo circondato dai Presbiteri, dai Diaconi, dagli accoliti, dai lettori e dalla schola cantorum.

È questa composizione ordinata e plurale della Chiesa che manifesta la communio ierarchica ricordata dal Concilio.

Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è ‘sacramento di unità’, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tutte le azioni liturgiche appartengono all’unico corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; i singoli membri poi vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e dell’attuale partecipazione (SC 26).

La concelebrazione eucaristica e la centralità della liturgia della Cattedrale mettono in luce con un’efficacia del tutto speciale il senso corale della liturgia e l’atto pubblico e comune di tutto il popolo di Dio nell’accedere alla Divina Maestà.

 In particolare si deve ricordare il ruolo delle tre scholae – degli accoliti, dei lettori e dei cantori – nella celebrazione liturgica festiva e solenne. Senza il loro apporto i sacri ministri si trovano privi di quella ricchezza rituale e solennità che sono indispensabili nella celebrazione dei santi misteri.

 Anche i ministranti, i lettori  e tutti i membri del coro svolgono un vero ministero liturgico. Essi perciò esercitano il proprio ufficio con la sincera pietà e l’ordine che convengono ad un così grande ministero e che il popolo di Dio esige giustamente da essi. Bisogna dunque che essi siano permeati con cura, ognuno secondo la propria condizione, di spirito liturgico, e siano formati a svolgere la propria parte secondo le norme stabilite e con ordine (SC 29).

Entrare in queste tre scholae implica delle condizioni importanti sia per coloro che esercitano il ministero, sia per la Chiesa che può contare su servizi liturgici veramente qualificati.

Il lettorato abilita il ministro con una adeguata formazione permanente liturgica e spirituale, conferisce una grazia specifica secondo il modo dei sacramentali e riveste il lettore con il suo abito proprio che conferisce alla sua funzione la necessaria dignità e sacralità di chi nell’assemblea della Chiesa proclama la Parola di Dio.

L’accolitato abilita il ministro con una formazione e una grazia specifica, ad accedere e stare all’altare nel modo conveniente, recando con nobile umiltà gli arredi sacri (croce, ceri, turibolo, ecc.), lo educa a portare con dignità le oblate (calice, patena, ecc.) e a preparare la mensa in aiuto al diacono, lo associa ai ministri ordinati (in caso di necessità) nell’atto sublime di distribuire la santa Comunione durante la celebrazione e portandola anche agli assenti. L’abito liturgico assume nell’accolito un valore del tutto speciale per la prossimità al santo altare e ai misteri che su di esso si celebrano. La sua tunica candida richiama a tutti i fedeli quell’abito battesimale che tutti hanno ricevuto e che devono rivestire sempre per partecipare degnamente alla sacra Mensa.

La schola cantorum educa i fedeli ad un vero ministero liturgico, l’esecuzione del canto sacro parte necessaria nella liturgia solenne. L’indispensabile formazione liturgico-musicale guida i cantores ad elevare il canto secondo i testi e le musiche stabilite dalla Chiesa conforme alle modalità esecutive della tradizione liturgica. I membri della schola, come tutti i ministri della liturgia, obbediscono con convinzione alle leggi proprie del canto sacro e si impegnano con umiltà e fervore a dar voce al gaudio della Chiesa a servizio del culto pubblico del popolo di Dio.

Da queste riflessioni si comprende bene perché la Chiesa abbia voluto istituire i vari Ministeri e non limitarsi a servizi liturgici improvvisati. Non raccogliere con serietà l’opportunità dei ministeri istituiti, rassegnandosi permanentemente a servizi liturgici di fatto, significa depotenziare la qualità della liturgia, la sua efficacia simbolica e la sua forza interiore di grazia.

I MINISTERI ISTITUITI

don Enrico Finotti

 

Fin dai tempi più antichi furono istituiti dalla Chiesa alcuni ministeri al fine di prestare debitamente a Dio il culto sacro e di offrire, secondo le necessità, un servizio al popolo di Dio. Con essi erano affidati ai fedeli, perché li esercitassero, degli uffici di carattere liturgico e caritativo a seconda delle varie circostanze.

Il conferimento di tali uffici spesso avveniva mediante un particolare rito, col quale il fedele, ottenuta la benedizione di Dio, era costituito in una speciale classe o grado per adempiere una determinata funzione ecclesiastica (Ministeria quaedam, 15 agosto 1972).

Quelli che nella secolare tradizione della Chiesa latina erano chiamati Ordini minori sono ora riveduti e chiamati Ministeri. Corrisponde inoltre alla realtà stessa e alla mentalità odierna che i menzionati uffici non siano più chiamati ordini minori e che il loro conferimento sia denominato non «ordinazione» ma «istituzione», ed ancora che siano e vengano ritenuti propriamente chierici soltanto coloro che hanno ricevuto il Diaconato.

In tal modo risalterà anche meglio la distinzione fra chierici e laici, fra ciò che è proprio e riservato ai chierici e ciò che può essere affidato ai fedeli laici; così apparirà più chiaramente il loro vicendevole rapporto, in quanto il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo propri modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo [LG10] (Ministeria quaedam, 15 agosto 1972).

Il loro riordino riguarda diversi aspetti:

– Sul piano teologico è chiarita la loro natura laicale. Non sono una emanazione della grazia del sacramento dell’Ordine, ma sono conferiti attingendo alla grazia battesimale in quanto forme dell’esercizio del sacerdozio regale e quindi esercitati dai fedeli laici. Certo questi servizi sono in stretta relazione col Ministero ordinato, ma non fanno parte neppure parzialmente dell’Ordine sacro. Essi occupano nelle azioni liturgiche ruoli pienamente laicali, possibili ad ogni battezzato, che ne abbia capacità e carisma riconosciuti dalla Chiesa.

La Prima Tonsura non viene più conferita; l’ingresso nello stato clericale è annesso al diaconato (Ministeria quaedam, I). I ministeri possono essere affidati anche ai laici, di modo che non siano più considerati come riservati ai candidati al sacramento dell’Ordine (Ministeria quaedam, III).

I laici di sesso maschile, che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza Episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti… (CDC, Can. 230 – § 1).

– Quanto al numero si passa dal Suddiaconato e dai quattro Ordini minori (ostiario, esorcista, lettore, accolito), ai due unici attuali Ministeri (lettore e accolito). Il Suddiaconato è abolito e le sue funzioni vengono assegnate all’Accolitato. È tuttavia possibile alle Conferenze Episcopali aggiungere altri ministeri. I ministeri che devono essere mantenuti in tutta la Chiesa Latina, adattati alle odierne necessità, sono due, quello cioé del Lettore e quello dell’Accolito.

Le funzioni, che finora erano affidate al Suddiacono, sono demandate al Lettore e all’Accolito, e pertanto, nella Chiesa Latina, non si ha più l’ordine maggiore del Suddiaconato. Nulla tuttavia impedisce che, a giudizio della Conferenza Episcopale, l’Accolito, in qualche luogo, possa chiamarsi anche Suddiacono (Ministeria quaedam, IV).

– L’istituzione dei Ministeri esige un esercizio reale di ogni Ministero, sufficientemente esteso nel tempo, in modo da evitare che si riduca una formalità canonica senza alcuna esperienza celebrativa. I candidati al Diaconato e al Sacerdozio debbono ricevere i ministeri del Lettore e dell’Accolito, se non l’hanno già fatto, ed esercitarli per un conveniente periodo di tempo, affinché meglio si dispongano ai futuri servizi della Parola e dell’Altare (Ministeria quaedam, XI).

Se la loro natura teologica fu materia alquanto discussa nei secoli fino al Vaticano II, tuttavia già nel Concilio Tridentino veniva suggerita, anche se non del tutto esplicitata, la loro origine ecclesiastica:

Il suddiaconato è collocato tra gli ordini maggiori dai padri e dai sacri concili, nei quali spessissimo leggiamo anche quanto riguarda gli altri ordini minori (Conc. Trid., Sessione XXIII, Decreto sull’Ordine, cap.II).

Il Tridentino ci è maestro anche riguardo all’esercizio permanente ed effettivo degli Ordini minori (oggi Ministeri) ed è aperto ad ammettere, in caso di bisogno, la loro compatibilità con lo stato matrimoniale:

Per riportare in uso, nel rispetto dei sacri canoni, le funzioni dei santi ordini, dal diaconato all’ostiariato, lodevolmente accolto nella Chiesa fin dai tempi apostolici, ma in molti luoghi interrotte per lungo tempo, e per evitare che siano considerate inutili dagli eretici, il santo sinodo, desiderando vivamente di ristabilire quell’antico costume, decreta che in futuro tali ministeri siano esercitati soltanto da quelli che sono costituiti in tali ordini. Il concilio esorta quindi, nel Signore, tutti e singoli i prelati delle chiese e comanda loro di fare in modo, nei limiti del possibile, che queste funzioni vengano ripristinate nelle chiese cattedrali, collegiate e parrocchiali della loro diocesi, dove un popolo numeroso e i proventi della chiesa lo permettono…

Nel caso non vi fossero chierici celibatari per esercitare il ministero dei quattro ordini minori, potranno essere sostituiti anche con chierici sposati di vita illibata, a condizione che non si siano sposati due volte, siano adatti a queste funzioni e in chiesa portino la tonsura e l’abito clericale (Conc. Trid., Sessione XXIII, Decreto di riforma, cap.XVII).

Il riordino degli Ordini minori implica anche una disciplina applicativa coerente con i principi dottrinali affermati. Per questo il termine Ministeri è più conforme alla loro natura teologica, rispetto al termine Ordini minori, che poteva esprimere una partecipazione impropria all’Ordine sacro. Anche l’abito liturgico deve essere conforme alla natura laicale di tali ministri: la tunica bianca, rimandando alla grazia battesimale, è più idonea dell’abito talare, che è proprio del ministero ordinato. Nome e abito manifestano opportunamente in modo visibile la dottrina specifica dei Ministeri istituiti. Lo stato clericale che per secoli accomunava gli Ordini maggiori e minori, ritenuti anche questi parziali partecipazioni al sacerdozio ordinato, deve ora essere contenuto nei limiti reali dei tre gradi dell’Ordine sacro e anche i segni esteriori lo devono esprimere con chiarezza.

NON SI PARLA PIÙ DEI «NOVISSIMI», PERCHÉ?

Molte persone in questi ultimi decenni osservano l’assenza nella predicazione e nella catechesi del tema che riguarda i Novissimi, ossia la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso. Sembra vi sia un certo timore a parlarne e quasi il rischio di offendere l’udito degli ascoltatori.

Eppure nessun tema come questo è presente ed espresso con chiarezza nella Rivelazione.

–  Della morte si dice che «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità […] ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2, 23-24);

–  del Giudizio si dice: «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2 Cor 5,10);

–  dell’Inferno il Signore afferma: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,41);

–  del Paradiso, nel medesimo testo, Cristo afferma: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi f in dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34).

–  Riguardo al Purgatorio il Concilio Tridentino «ha insegnato che il purgatorio esiste e che le anime ivi trattenute possono essere aiutate dai suffragi dei fedeli e soprattutto col santo sacrificio dell’altare» (Decreto sul purgatorio).

Vi sono poi innumerevoli testi biblici che, con ancor più chiarezza, parlano di queste ultimissime realtà, che attendono ogni uomo e che incombono sul futuro del mondo. La Madonna, come una buona madre, già da lungo tempo prepara i suoi figli a non perdere di vista i quattro Novissimi, come quelle realtà soprannaturali che seguono alla nostra morte corporale e che riguardano ognuno personalmente. Infatti, a Fatima, in particolare, Maria santissima porta i tre veggenti a vedere l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ma, perché tale esperienza non svanisca e venga continuamente richiamata nel popolo cristiano, ha voluto insegnare loro una breve preghiera, entrata ormai nella recita del santo rosario. Ecco il testo:

O Gesù perdona le nostre colpe, preservaci dal fuoco dell’inferno, porta in cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della tua misericordia”.

Come si nota qui sono ricordate le verità del peccato, causa della morte, dell’inferno «dove vanno le anime dei poveri peccatori», del purgatorio e del paradiso «porta in cielo tutte le anime». La Madonna, quindi, è oggi la grande catechista del popolo di Dio in un tempo di smarrimento del dogma della fede. Non dobbiamo quindi aver dubbio in merito. Si tratta di una dottrina sicura e sempre proclamata nella Tradizione della Chiesa. Occorre superare quell’imbarazzo, che viene dal mondo e con serenità esporre con completezza l’insegnamento della fede.

Anzi, soprattutto una catechesi precisa e costante sui Novissimi ha una grande efficacia per la salvezza delle nostre anime e ancor di più per la nostra santificazione.

Un annunzio evangelico monco su questioni di tanta importanza rende vana la grazia di Dio e inietta nell’anima il veleno dell’errore e il lassismo morale.

ALLE RADICI DEL MISTERO EUCARISTICO

don Enrico Finotti

ALLE RADICI DEL MISTERO

La nostra è un’epoca di grande sconvolgimento ideologico e dottrinale. Urge perciò un coraggioso ritorno all’essenziale per individuare il nocciolo delle questioni e cogliere ciò che in esse è permanente, distinguendolo dal marginale e transeunte. Anche riguardo all’Eucaristia insorge legittima la domanda: Cosa avviene quando sull’altare si attua il Mistero eucaristico?

 Nel ventaglio vasto delle opinioni teologiche odierne, nel variegato incontro con le altre confessioni cristiane e nel delicato sforzo dell’inculturazione della fede tra i popoli si sente la necessità di individuare l’essenza del Mistero: ciò che il Signore ha consegnato e che non può essere perduto.

La ricerca – previa ai successivi sviluppi storici e teologici – si concentra opportunamente sulla fonte originaria e insuperabile dell’Eucaristia: le stesse parole del Signore con le quali ha creato e istituito questo grande Mistero. Eccole come sono riportate nell’ attuale Messale italiano:

Sul pane: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi».

Sul calice: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza versato per voi e per tutti in remissione dei peccati».

«Fate questo in memoria di me».

 L’analisi delle Parole del Signore – sia quelle sul pane, come quelle sul calice – rivela immediatamente e chiaramente la compresenza dei tre aspetti esclusivi, indissolubili e simultanei dell’Eucaristia.

L’unico Mistero eucaristico si esplica in tre dimensioni, che stanno all’origine dei tre capitoli fondamentali dello sviluppo teologico successivo, che li denominerà come: reale Presenza, Sacrificio e Convito. Una semplice sinossi lo dimostra:

«Prendete, e mangiatene tutti:        (Eucaristia come Cibo)

questo è il mio Corpo                           (Eucaristia come Presenza reale)

offerto in sacrificio per voi».              (Eucaristia come Sacrificio)

 

«Prendete, e bevetene tutti:              (Eucaristia come Cibo)

questo è il calice del mio sangue     (Eucaristia come Presenza reale)

per la nuova ed eterna alleanza  versato per voi e per tutti in remissione dei peccati»                                                                                         (Eucaristia come Sacrificio).

 

Queste tre dimensioni sono geneticamente impresse nell’evento eucaristico in quanto tale e perciò costituiscono parti essenziali e ineliminabili per l’integrità stessa dell’Eucaristia. Come tali si realizzano sempre in modo simultaneo ogni volta che viene celebrata validamente l’Eucaristia e la perdita di uno solo dei tre elementi rende inesistente l’evento misterico.

Il Signore nel medesimo istante che si rende presente, si offre in sacrificio ed è disponibile nella forma di cibo e bevanda. Risulta allora evidente che una comprensione corretta del mistero eucaristico e una catechesi completa su di esso implica l’approfondimento indissolubile ed equilibrato di questi tre elementi:

 – il senso della reale Presenza, che suscita lo stupore adorante;

– il senso dell’offerta sacrificale di Cristo, che raccoglie quella della Chiesa e dei fedeli;

– il senso del convito, che invita alla comunione sacramentale.

Presenza, Sacrificio e Comunione sono esperienze spirituali fondamentali e abilitazioni rituali necessarie per ogni cristiano che viene iniziato alla celebrazione eucaristica.

 

ALLE RADICI DEL RITO

Il tempo ecclesiale postconciliare è segnato dall’esperienza di una riforma plenaria della liturgia cattolica, che smuove forme consolidate da secoli e uniformi in tutta la Chiesa. Tale trasformazione ha provocato una profonda riflessione e un forte impegno nel realizzare le nuove espressioni rituali.

Insieme ad una recezione universale e grata della riforma liturgica non sono mancate le difficoltà sia come fenomeno di ritorno, sia come spinte abusive.

Assistiamo anche ad un vasto incontro e confronto con i vari riti che il movimento ecumenico accoglie e promuove e la trasmigrazione dei popoli offre nelle contrade delle nostre città.

Questa singolare situazione pone al cristiano attento una domanda mirata ad individuare – nelle molteplici mutazioni rituali prima e dopo il Concilio, nel processo di inculturazione in corso e nei diversi riti storici ammessi nella Chiesa – gli elementi fondamentali e le linee essenziali che mantengono il rito nella fedeltà all’istituzione del Signore senza mai perdere alcunché della propria integrità.

 La risposta la si trova risalendo all’origine del rito stesso: i tre gesti eucaristici del Signore.

Infatti, nell’ultima cena, Egli: – prese il pane – disse la benedizione – lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli. E dopo aver cenato: – prese il calice – disse la benedizione – lo diede ai suoi discepoli.

Come si vede l’istituzione dell’Eucaristia consta di tre gesti fondamentali.

Essi identificano i lineamenti essenziali ed insuperabili per l’integrità della celebrazione rituale dell’Eucaristia nella successione dei secoli e nella varietà dei popoli e delle famiglie liturgiche. In altri termini ogni eucaristia autentica, valida e legittima deve assicurare, pur in forme diversificate, la realizzazione dei tre gesti eucaristici del Signore. La secolare formazione storica dei riti – orientali e occidentali – determinerà, con caratteristiche simboliche e stilistiche variabili, il modo di celebrare questi tre gesti del Signore e la liturgia romana li individuerà con termini precisi e sintetici: offertorio – prece eucaristica (canone) – comunione.

Uno schema elementare evidenzia la relazione tra i gesti del Signore e i riti liturgici che li contengono e li sviluppano:

– prese il pane (riti di offertorio)

– disse la benedizione (la prece eucaristica)

– lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli (riti di comunione)

prese il calice (riti di offertorio)

– disse la benedizione (la prece eucaristica)

– lo diede ai suoi discepoli (riti di comunione).

Questa essenzialità ha il merito di indicare le parti inalienabili di quel rito col quale il Signore nella notte in cui fu tradito ci donò il grande Mistero della sua Pasqua. Ogni Chiesa nei secoli passati e in quelli futuri ha avuto ed avrà la libertà di espressioni rituali conformi al genio culturale, teologico e spirituale proprio, ma dovrà sempre vigilare affinché non venga mai soppresso uno solo di questi gesti, ai quali il Signore stesso ha legato la realizzazione sacramentale del Mistero della nostra redenzione.

Si comprende l’analogia con i tre aspetti del Mistero contenuto nelle parole del Signore: come il Mistero assume forma e completezza nelle tre dimensioni distinte e indissolubili della reale Presenza, del Sacrificio e del Convito, così tale Mistero si attualizza nei tre riti distinti e indissolubili dell’Offertorio, della Consacrazione e della Comunione.

 E come il Sacrificio attua nel medesimo istante la reale Presenza nella forma del Cibo, così la Consacrazione realizza sacramentalmente tutto l’evento eucaristico, preparato dall’offertorio e consumato nella comunione.

È allora evidente come alla base del dono divino dell’Eucaristia vi siano le parole del Signore, che ne fondano il Mistero e i suoi gesti, che ne stabiliscono il rito.

IL GRUPPO LITURGICO?

“Ha senso un gruppo liturgico in parrocchia? E, se lo ha, qual è il suo compito?”

 Indubbiamente un gruppo o una commissione, che curi la dignità delle celebrazioni liturgiche, è uno strumento importante in parrocchia. Tuttavia si deve intendere bene, sia il suo ruolo, sia, soprattutto, il suo modo di procedere. Il ruolo, come il metodo del gruppo liturgico sono analoghi agli altri due fondamentali gruppi: quello catechistico e quello pastorale. Infatti, annunzio, liturgia e pastorale sono i tre ambiti essenziali della vita della Chiesa.

L’azione delle tre commissioni deve essere basata su tre tappe successive e concatenate.

La commissione catechistica:

1. Si deve iniziare con la conoscenza corretta e oggettiva della Parola di Dio, ascoltandola con umiltà e docilità, senza inquinarla con le nostre categorie ideologiche.

2. L’ascolto pieno e completo della Parola di Dio implica anche l’accoglienza altrettanto sacra della Tradizione orale, intesa nell’interpretazione autentica del Magistero vivo della Chiesa. Tale complemento si trova soprattutto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che offre un panorama completo della nostra fede contenuta nella Sacra Scrittura, nella sacra Tradizione e garantita dal Magistero. Solo in questa seconda tappa l’ascolto della Parola di Dio è completo, integro ed efficace.

3. A questo punto si deve considerare l’analisi della situazione e della vita di coloro che devono ricevere l’annunzio, in modo tale che le leggi della psicologia, della didattica, della sociologia, della gradualità, ecc. possano contribuire al massimo grado possibile ad offrire un annunzio efficace ed adatto ad ogni categoria di persone.

La commissione liturgica:

1. Si deve prima di tutto conoscere bene i riti stabiliti dalla Chiesa ed editi nei libri liturgici ufficiali.

 2. La loro conoscenza tuttavia è veramente profonda se si meditano attentamente le Premesse (Praenotanda) contenute negli stessi libri liturgici. Esse motivano teologicamente e pastoralmente il senso e la tipologia dei vari riti. Anche gli altri documenti del Magistero relativi alla liturgia devono concorrere a fornire una formazione liturgica ben calibrata e completa negli operatori. La sola conoscenza del rito senza la teologia e le indicazioni delle Premesse rituali potrebbe portare al rubricismo, mentre la sola teologia senza la precisa conoscenza e osservanza dei riti porta alla creatività soggettiva e libera dei medesimi.

3. Assolta questa preparazione si può legittimamente procedere alla realizzazione rituale nella concreta assemblea liturgica, operando gli adattamenti necessari senza tuttavia tradire la lettera e lo spirito del rito della Chiesa. I riti potranno essere adattati con gradualità, ma mai alterati, decurtati o amplificati oltre la loro identità costitutiva.

La commissione pastorale:

Per completezza osserviamo che anche il processo dell’attività pastorale in genere è analogo a quello sopra descritto per la catechesi e per la liturgia.

1. Il primo passo consiste nella sufficiente conoscenza delle leggi canoniche della Chiesa. Il Codice di Diritto Canonico ha come suprema legge la salus animarum e non deve essere considerato pregiudizialmente un peso e un legame, ma un servizio per una pastorale di qualità, ispirata dalla sapienza e dall’esperienza secolari della Chiesa.

2. Alla legge universale si devono aggiungere tutte quelle leggi e disposizioni particolari che reggono la diocesi, la parrocchia e le istituzioni ecclesiali nella varietà delle loro espressioni e finalità.

3. Ed ecco che solo ora è possibile analizzare la concreta realtà di una comunità cristiana, ascoltarne le esigenze, i problemi, i desideri e, alla luce delle leggi della Chiesa, trovare la giusta risposta e formulare un adeguato piano pastorale.

 

Se le tre commissioni si attengono a questo triplice modo di procedere non possono che essere efficaci nella loro azione ecclesiale e promuovere un’autentica opera di evangelizzazione, di santificazione e di vita cristiana nella carità. Purtroppo in una mentalità diffusa e in un costume ormai generalizzato, tale procedimento viene del tutto capovolto. Anziché partire dal mistero, ascoltando la Parola di Dio, conoscendo i riti della Chiesa e accogliendo le sue leggi canoniche, si parte dall’uomo e dalla sua situazione esistenziale. Si fanno con grande cura indagini, ricerche e sondaggi di ogni genere. Si ascolta quasi con venerazione e attenzione meticolosa ogni brezza che soffia nel tessuto sociale a tal punto che tale impegno assume quasi i caratteri del sacro, come se Dio fosse rintracciabile solamente nei fatti e nella cronaca quotidiana e tra le pieghe delle opinioni così fluttuanti degli uomini. Ammagliati da questa contemplazione quasi estatica del contingente e totalmente impegnati a dovervi dare una risposta il più possibile condivisa e accettata, la risalita alle fonti del Mistero ne è alquanto frenata, ritardata e talvolta abbandonata. Si cercano le risposte ai problemi nei problemi stessi e ci si fissa su di essi alla maniera di chi non ha fede e speranza soprannaturale, condividendo col mondo la problematicità, senza soluzioni e senza meta. Così una ‘pastorale’ eccessivamente prona sull’uomo ha intrappolato il cristiano nell’asfissia del materiale, contagiandosi della malattia del secolarismo, ormai privo di ogni trascendenza e rinunciando così alla sua missione salvatrice, che avrebbe dovuto consegnare all’uomo, svilito e ansimante, la luce e la grazia del mistero che salva, solleva e consola nell’orizzonte ossigenante delle realtà eterne.

Una simile pastorale, ormai secolarizzata, è compromessa dal sospetto, diffuso e condiviso, sulle sorgenti stesse del mistero, soprattutto quelle offerte dalla Chiesa: il Catechismo, il Codice, gli atti del Magistero, la sacra Tradizione, sono oggetto di critica, di vaglio illegittimo, di emarginazione. Fa eccezione la Sacra Scrittura, che, col pregiudizio protestante della ‘sola Scriptura’, ancora resiste, ma isolata dal suo necessario contesto: Tradizione, Magistero, Chiesa, sono piegati e interpretati dalle ideologie imperanti, offerte dalla società che si vuole, si dice, evangelizzare.

Da questo stato di cose, in cui le tre tappe sopra descritte, sono radicalmente capovolte, ne scaturisce una contraffazione dei pilastri portanti della vita della Chiesa:

– la catechesi diventa uno scambio di opinioni e un permanente dibattito sui problemi del momento e sulle fasi dello sviluppo dei catechizzandi o un esercizio di come ben inserirsi nel clima culturale, politico e sociale in cui si vive;

– la liturgia si trasforma in una recita prodotta dal gruppo che la celebra, con le evidenze, le sensibilità, i simboli e il linguaggio, che sono propri di coloro che la creano, la gestiscono e alla fine la impongono;

– la pastorale, in tutte le sue svariate modalità ed obbiettivi, si risolve fondamentalmente in un’attività socializzante, di natura culturale, solidaristica, folcloristica, economica e, perciò stesso, difficilmente estranea a posizioni politiche e visioni ideologiche di parte.

Tutto questo perché si è partiti male, mancano i presupposti della formazione teologico-spirituale e ci si abbandona, senza difese, senza progetto e senza verifica, ad un servizio umanitario, subito affascinante, ma ben presto deludente. Questo è un problema concreto in cui oggi versano gran parte delle nostre parrocchie e taluni gruppi ecclesiali. Questo processo patologico afferma in fin dei conti l’assenza di Dio e proclama che la salvezza dipende dall’uomo stesso e dalle sue capacità. Occorre invertire il procedimento e partire dal Mistero, accoglierlo, conoscerlo, contemplarlo, esserne impregnati e, solo dopo, andare verso l’uomo con la volontà sincera e determinata di introdurlo nell’evento della grazia, senza timore nell’affrontare l’uomo, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte. Il mondo attende la salvezza in Cristo, ma noi non possiamo perderla in un contatto buonista col mondo.

Concludendo possiamo allora affermare la bontà di un gruppo liturgico, ma alle condizioni sopra stabilite.

Infine occorre riconoscere che ogni attività nella Chiesa ha in Dio il suo inizio, la sua fecondità e il suo fine, secondo l’espressione della nota orazione Actiones nostras: “Signore, previeni le nostre azioni con la tua grazia, sostienile col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera come ogni nostro lavoro trovi in te il suo principio ed il suo compimento. Amen” (in Manuale delle Indulgenze, Libreria Editrice Vaticana

1968, p. 46). Per questo ogni riunione ecclesiale deve iniziare e concludersi con la fervente preghiera, altrimenti tutto è commisurato col criterio aziendale dell’efficienza, del successo e del semplice rapporto umanitario.