IL SOGGETTO DELLA LITURGIA

don Enrico Finotti

Vi è una questione fondamentale che deve essere necessariamente chiarita per impostare nel modo dovuto il discorso sulla Liturgia: è la questione del Soggetto.

Chi agisce nell’atto liturgico? Chi opera nei riti e nelle preci? Con quale autorità si esercitano le azioni liturgiche?

Queste domande sono di importanza così essenziale, quale lo è la ‘chiave di volta’ di un grandioso portale: rimossa la ‘chiave di volta’ tutto l’arcata crolla e con essa l’intero edificio. Oggi non si insiste abbastanza su questo problema e per questo è facile inoltrarsi in una grande confusione nel trattare del valore, dell’identità e dell’efficacia della liturgia, compromettendo gli stessi criteri di base nella sua concreta attuazione.

Il Soggetto della Liturgia è Cristo Gesù, indissolubilmente unito alla Chiesa, sua Sposa. Due Soggetti distinti, ma indissolubili, in modo da formare quasi un Soggetto unico, che agisce sempre in totale sintonia, senza la minima confusione della diversa loro natura e azione.

Infatti potremo dire che:

nella liturgia di istituzione divina (il Sacrificio e i Sacramenti) è l’azione di Cristo-Capo che domina sovrana sia nel movimento ascendente del sacrificio che sale al Padre, portando con sé la Chiesa, sia nel movimento discendente che santifica la Chiesa sua Sposa, che ne riceve la vita della grazia;

nella liturgia di istituzione ecclesiastica è l’azione della Chiesa-Sposa che opera in primo luogo, ma sempre in indissolubile unione col suo Sposo divino, che sempre assume e fa propria l’azione della sua Chiesa, sia nel movimento ascendente dell’adorazione, come in quello discendente della santificazione.

In tal modo ben si comprende che mai Cristo opera senza la sua Chiesa e mai la Chiesa opera senza il suo Capo. In verità se il Capo operasse senza il suo Corpo sarebbe negata l’Incarnazione e se il Corpo agisse senza il suo Capo cesserebbe nel momento stesso di essere Chiesa.

Ecco allora che ogni volta che si attuano nel tempo e nello spazio i riti liturgici in modo valido e legittimo ci si incontra con l’intervento soprannaturale del Signore Risorto e della Chiesa, che operano affinché tutto il popolo cristiano e ciascuno dei suoi membri possano essere assunti nell’azione sacra, sacrificale e santificante, e diventare con Loro un sacrificio puro gradito al Padre.

La confusione dottrinale e i conseguenti abusi nella celebrazione liturgica sono dovuti anche ad un concetto errato del termine ‘Assemblea celebrante’.

L’espressione in quanto tale è corretta: infatti è vero che nella liturgia l’intera Assemblea della Chiesa – Capo e Corpo – è il Soggetto agente di ogni azione liturgica. In tal senso ogni membro della Chiesa, per diritto battesimale e crismale, è chiamato ad un’operazione consapevole, attiva e fruttuosa ogni volta che interviene nella santa Assemblea. Tuttavia occorre precisare come si configuri l’Assemblea celebrante e quale siano le sue dimensioni costitutive e i lineamenti della sua vera e piena realizzazione. Per questo è necessario distinguere bene le sue componenti interne e con i loro diversi ruoli.

1) Non vi è ‘Assemblea celebrante’ senza Cristo-Capo. È necessario non passare sotto silenzio questa presenza assolutamente necessaria, primaria e sovrana. Anzi tutta la Chiesa è in Lui e da Lui fluisce. Al contempo vi sono atti propriamente suoi, in quanto Capo, e che la Chiesa riceve per diventare sempre più il suo Corpo. È Lui infatti che genera continuamente la Chiesa e che la mantiene permanentemente nella sua più profonda identità di assemblea santa, sposa incontaminata, popolo sacerdotale, sacrificio vivente.

2) Questa ‘Assemblea’ è certamente convocata qui ed ora in un preciso spazio e tempo: è l’Assemblea liturgica locale, che si delinea nelle caratteristiche proprie dei vari luoghi dove il popolo di Dio vive e cammina nel tempo, con tutta la più vasta gamma dei connotati culturali e ambientali, storici e sociali nel flusso del tempo presente che scorre verso l’eternità. È questa la Chiesa che il Concilio chiama ‘locale’ o ‘particolare’.

3) Questa medesima ‘Assemblea’ tuttavia non è chiusa, isolata nella sua località e oppressa dall’orizzonte ristretto della sua visione sociologica, ma è intimamente aperta e in comunione reale con tutte le ‘Assemblee’ liturgiche del mondo: quelle diffuse nello spazio su tutta la terra e quelle successive nel tempo, che ebbero luogo nello scorrere secolare dei millenni cristiani. È insomma una Assemblea cattolica, ossia universale nel senso che abbraccia le due coordinate essenziali della vita umana, il tempo e lo spazio. In questo sta il senso vivo della Tradizione liturgica della Chiesa che mai viene interrotta, ma che ci tiene in salda continuità con tutti quelli che ci precedettero nella fede. E così pure il senso della comunione e dello scambio reciproco tra tutte le Chiese a noi contemporanee, verso le quali abbiamo un debito e un impegno di comunicazione che deve poter essere sempre verificato, espresso e garantito. Nessuna assembla locale è totalmente libera di agire con una creatività svincolata dalla tradizione dei secoli e dalla comunione oggettiva con i fratelli di fede sparsi in tutto il mondo.

 4) Infine – ed è cosa di primissimo ordine – l’ ‘Assemblea celebrante’ porta nella sua più profonda realtà l’immensa Assemblea celeste, la ‘maggioranza dei Santi’, lo stuolo delle miriadi di Angeli, la presenza materna della SS. Vergine. Non basta l’occhio del corpo per vedere il mistero che è sotteso all’ Assemblea’ liturgica, per quanto piccola e povera che si raduna qui sulla terra.

Occorre lo sguardo soprannaturale della fede, col quale si percepisce quella sterminata Assemblea che può essere ospitata soltanto nei cieli, ma che è geneticamente connessa ed intima con quel piccolo

‘noi’ qui radunati e col nostro flebile gemito di viatori nell’oscurità di quaggiù e nella debole luce della lucerna della fede che ci conduce nella notte. I Santi ci precedono in questo sguardo penetrante e il loro modo di celebrare ce ne svela il mirabile panorama di luce superna.

Ecco le componenti essenziali e mai dissociabili dell’‘Assemblea celebrante’. Se esse vengono adeguatamente tenute insieme, spiegate e vissute nella celebrazione, la nozione di ‘Assemblea celebrante’ non può che dichiarare senza timore la sua adeguatezza come Soggetto della liturgia.

Ma è a causa della riduzione o del silenzio di una o l’altra di queste coordinate fondamentali che si è diffusa l’incrinatura dottrinale e la pratica abusiva nel concreto modo sia di celebrare, come anche di impostare la formazione liturgica.

Si assiste oggi, infatti, ad una riduzione solo sociologica dell’Assemblea liturgica, ossia, si considera soltanto il piccolo o grande gruppo che si vede e che si raduna in un certo luogo, ma si dimentica tutto il resto: la sua invisibile dimensione universale e soprannaturale.

Soprattutto non ci si rende conto a sufficienza della presenza e dell’azione del Capo del Corpo, senza il quale tutto svanisce ed è travolto dal flusso inesorabile del tempo senza lasciare l’impronta di una salvezza eterna e definitiva.

Una ‘pastorale dimezzata’, attenta esclusivamente ai dati sociologici, ha ridotto la liturgia all’azione creativa del gruppo che gestisce di volta in volta il rito, senza più garantire a sufficienza l’azione del Signore, la comunione con i Santi, la Tradizione dei secoli e la sintonia con l’universalità della Chiesa.

In tal modo la liturgia diventa l’espressione del ‘noi qui convocati’ e della nostra cronaca quotidiana. Svanisce il respiro dei secoli, si chiude l’orizzonte della Chiesa diffusa su tutta la terra, si oscura la comunione dei Santi nel cielo e Cristo stesso rischia di essere un ospite di riguardo invitato ad assistere ad una nostra sempre mutevole creatività e a condividere quello che piace fare a noi. Il nostro protagonismo rischia così di sostituirsi all’adorazione e il politicamente corretto soppianta l’obbedienza alla Sua Parola di verità.

Come allora superare la crisi e aver garanzia di celebrare la liturgia vera, quella che ha per Soggetto Cristo e la Chiesa? Ubbidendo al Magistero della Chiesa. Solo, infatti, la liturgia come è stabilita dall’autorità della Chiesa garantisce la composizione equilibrata di tutti gli ‘ingredienti’ necessari alla natura di un vero atto liturgico. Chi segue con fedeltà l’Edizione typica dei libri liturgici, osservandone con precisione le rubriche e pronunziando con fede le preci stabilite, assicura in ogni sua parte il complesso rituale: – gli atti di Cristo-Capo sono rispettati nella loro validità; – quelli della Chiesa sono celebrati con tutte le loro dimensioni costitutive: la comunione nel tempo (Tradizione) e nello spazio (universalità) si compone con l’attenzione all’ambiente concreto in cui la liturgia si attua (località).

In tal modo sarà possibile celebrare una liturgia valida e lecita e quindi riconosciuta da Dio ed efficace in ordine alla nostra santificazione. Una liturgia, invece, che esulasse dal Magistero della Chiesa perderebbe immediatamente il suo vero Soggetto soprannaturale e decadrebbe irrimediabilmente in un atto di culto privato.

Si comprende allora le cause degli abusi liturgici attuali:

– la non percezione della presenza e dell’azione diretta del Signore, che provoca la caduta del senso del sacro; – un concetto errato o insufficiente di ecclesiologia, ridotta a sociologia localista;

– il conseguente concetto errato o ridotto di pastorale, rivolta eccessivamente all’uomo e al suo ambiente, senza vigilare adeguatamente sull’integrità del Mistero che deve trasmettere per la sua redenzione.

Con la caduta del Soggetto vero della liturgia oggi non si distingue più la liturgia dai pii esercizi, osservando che l’unico soggetto che opera sempre in ogni azione cultuale è l’ Assemblea celebrante’ nella sua visibilità più immediata. Oggi, infatti, non è raro ritenere che ogni espressione di preghiera fatta da chiunque e in qualsiasi forma sia liturgia e così pure la si denomina.

In realtà la differenza essenziale la fa il diverso soggetto: la liturgia ha un soggetto soprannaturale Cristo e la Chiesa in quanto tale, mentre ogni altro atto di culto pubblico o individuale ha come soggetto la persona o il gruppo che lo crea e lo celebra.

È allora necessario distinguere anche ritualmente la liturgia dai pii esercizi: – evitando l’intreccio interno con le azioni liturgiche:

– ovviando all’unione organica di un pio esercizio che, senza soluzioni di continuità, precede o segue un rito liturgico;

– resistendo precisamente dalla tentazione facile di sostituire atti liturgici preferendo superficialmente al loro posto pii esercizi e rallentando in tal modo di elevare il popolo alla liturgia. Forse potrebbe essere presa in considerazione anche l’opportunità di riservare gli abiti liturgici alle sole azioni liturgiche e indossare, invece, l’abito corale per presiedere ai pii esercizi del popolo cristiano.

Come si vede la normativa della Chiesa precede la prassi e davanti a noi vi è ancora molta strada da percorrere sia nella formazione liturgica, come nella conseguente celebrazione.

IL CERO PASQUALE

Anche quest’anno, come negli scorsi anni, il Cero pasquale diventa un problema. Per alcuni è un’inutile spesa l’acquistarlo nuovo ogni anno, per altri è giusto. Certe volte succede che anche i suoi ornamenti sono logori e ben poco ‘pasquali’. Il parroco cerca di glissare, il sacrista invece si arrabbia dicendo: «Decidetevi, che ci sono altre cose più importanti». Che ne dite?

Se non si cura il Cero pasquale e la sua simbologia liturgica lo si confonderà facilmente con qualsiasi altro cero votivo, magari più grande e appariscente.

Infatti non è infrequente che si pongano davanti a reliquie o immagini insigni dei ceri votivi notevoli per dimensioni e fregi. Si pensi a quelli offerti in determinate feste al Patrono o in altre circostanze per ricordare eventi religiosi particolarmente significativi. Il Cero pasquale deve essere ammirato dai fedeli per la sua proprietà e nobiltà ed essere riconosciuto con sicurezza per quelle ‘insegne’ proprie ed esclusive, che prevede la liturgia.

Possiamo delineare tre modalità per la confezione e decorazione del Cero:

1. Il Cero pasquale, realmente di cera e nuovo ogni anno, rappresenta la massima cura per la ‘verità del segno’. Sul bianco fusto campeggiano esclusivamente i simboli previsti dalle formule liturgiche (croce, A e O, numeri dell’anno in corso, grani d’incenso). In questo modo il Cero si impone per la sua identità in modo nobile, chiaro, senza bisogno di altre indicazioni. Anche l’infissione dei grani di incenso nello spessore della cera esprime in tutta la sua forza simbolica il senso reale delle ferite che penetrarono nel corpo del Signore, ricordando la ‘fisicità’ della sua Incarnazione e della sua dolorosa Passione. Questa prima modalità espone il Cero ad una graduale consumazione, ma proprio per questo il simbolo è eloquente. Ciò richiede un’attenzione continua, sia per la visibilità della fiamma, sia per la pulizia e il decoro del Cero stesso.

2. Il Cero pasquale, sempre totalmente in cera, potrebbe fare un servizio pluriennale, mediante una aggiunta sommitale, che assicuri l’autenticità della cera che visibilmente si consuma e della fiamma che arde vigorosa, senza intaccare però il cero stesso e la sua decorazione. Questa soluzione unisce praticità e pulizia pur senza venir meno alla dignità e verità del segno.

3. Il Cero pasquale, sia nel primo come nel secondo caso, potrebbe essere impreziosito da un piccolo ‘apparato’ che lo riveste con maggior splendore. Si tratta di una croce di metallo curva a modo di fascia con relative lettere e numeri. L’applicazione potrebbe agevolmente essere fatta mentre il sacerdote pronunzia la formula rituale nel rito della luce. I fori predisposti sulla croce indicano con sicurezza i punti in cui infiggere i cinque grani di incenso. Con questo ‘vestito’ il Cero potrebbe risplendere per tutto il tempo pasquale finché rimane sul suo candelabro. Quando poi sarà portato nel battistero il Cero deporrà questa ‘insegna di gala’ rimanendovi con una decorazione più sobria, già predisposta in precedenza e senza i grani di incenso. In tal modo si realizzerebbe per il Cero pasquale ciò che già si fa, ad esempio, per l’altare rivestito da un prezioso paliotto nelle solennità e così si distinguerebbe adeguatamente l’uso solenne del Cero nel tempo di Pasqua dal suo uso feriale presso il battistero. È infatti alquanto conveniente che nelle celebrazioni pasquali il Cero si ‘vesta’ a nuovo e non si presenti con quella ferialità con cui lo si vede ordinariamente nel corso dell’anno, soprattutto nelle celebrazioni esequiali.

Per concludere diciamo che sempre si dovrebbe evitare la finzione, ossia un cero di altro materiale con una ampolla di cera liquida, che alimenta una fiamma sempre uguale e senza vita. Sembra che tale scelta, purtroppo alquanto diffusa, perché funzionale e senza bisogno di manutenzione, non sia conforme a quella ‘verità del segno’ che domanda la liturgia, il buon gusto e la dedizione religiosa in un culto ‘in spirito e verità’.

Inoltre, il Cero potrà essere certamente decorato con molteplici ornamenti, secondo la tradizione, ma non si dovrà mai giungere a togliere centralità e immediatezza alla sua simbologia liturgica essenziale, che sempre dovrà emergere nel complesso ornamentale. Soprattutto nessuna raffigurazione potrà sostituire i simboli previsti dalle formule liturgiche con cui il cero è ‘creato’ nella veglia pasquale. Ogni ornamento dev’essere sempre in relazione ai simboli centrali e contenuto in spazi laterali.

Infine si dovrebbe ripensare la facoltatività nell’uso dei cinque grani di incenso, perché questa ha de facto prodotto una vasta scomparsa di questo simbolo con notevole impoverimento dell’identità del Cero stesso.

IL BATTESIMO DEI BAMBINI NELLA VEGLIA PASQUALE

La Chiesa raccomanda che nella Veglia pasquale il battesimo sia effettivamente celebrato. Ma come poterlo fare se la Veglia è celebrata troppo tardi, verso mezzanotte, come pure viene raccomandato. E come insistere perché anche i bambini della catechesi di Iniziazione cristiana vi partecipino con i loro genitori? Un parroco

Occorre distinguere i due contenuti della domanda: il battesimo dei bambini nella Veglia e la partecipazione dei bambini della catechesi alla medesima. La composizione simultanea di esigenza diverse, quali: la mezzanotte, il battesimo degli infanti e la partecipazione dei bambini della catechesi, sollecita una riflessione che pone dei quesiti. Si possono delineare alcuni principi, che attualmente rimangono ancora a livello di orientamento, senza una acquisita e diffusa attuazione pratica.

1. Il carattere notturno è congenito all’identità stessa della Veglia e una sua riduzione incrina la Veglia pasquale nella sua struttura più intima. Ora il tempo notturno non è propriamente quello delle ore serali, ma implica almeno un lambire la mezzanotte. Solo così la Veglia avviene con verità ‘in nocte’ e si distingue da una normale attività serale.

2. L’annunzio della risurrezione, che costituisce il cuore della Veglia e unisce elementi quali il Gloria, il suono delle campane, l’Alleluia e il vangelo della risurrezione, non dovrebbe essere anticipato prima della mezzanotte, se si intende rispettare il tempo proprio del terzo giorno, la Domenica di Pasqua. Ogni anticipo, non solo non concorda con l’antica tradizione dei Padri, ma presenta un’incoerenza col tempo reale dell’evento misterico: il Signore è risorto il terzo giorno. Si deve sempre ricordare che la coerenza cronologica tra il mistero e la sua celebrazione liturgica ha costituito il criterio principale della riforma del Triduo sacro e della Settimana Santa di Pio XII.

3. La Veglia pasquale è la celebrazione pubblica e solenne dell’intero popolo di Dio e non può in nessun modo scadere in concessioni riduzionistiche, come ad esempio diventare una celebrazione con e per i bambini. In tal senso la Veglia non è fatta per loro. Il popolo di Dio in quanto tale ne è protagonista, non una categoria specifica di esso. Ciò implica il massimo impiego della solennità dei riti, della completezza delle parti e dell’alto profilo celebrativo. Essa è infatti ‘la madre di tutte le veglie’.

4. La Veglia pasquale storicamente si afferma come unica sede liturgica annuale per la celebrazione dell’Iniziazione cristiana degli adulti. Tale norma rimane valida anche oggi. Il battesimo dei bambini, invece, è sollecitato dalla Chiesa entro poche settimane dalla nascita e, quindi, l’offerta mensile del battesimo comunitario in parrocchia è attualmente la norma pastorale ordinaria.

5. Occorre assicurarsi, per l’importanza e la dignità stessa della Veglia, che l’eventuale battesimo dei bambini, non comprometta né l’integrità del rito, né la sua durata, né la dovuta solennità. I bambini con i loro genitori, i parenti e i fotografi non possono in alcun modo incrinare l’alto profilo liturgico e la ricchezza propria della Veglia. Essi non devono assorbire a tal punto l’attenzione da sminuire il senso della Veglia come atto proprio dell’intera comunità cristiana. La rinnovazione delle promesse battesimali, in particolare, è innanzitutto una meta importante per tutto il popolo di Dio, preparata dall’itinerario penitenziale della Quaresima. Un’emarginazione di tale gesto a causa di una attenzione totale al battesimo dei bambini lo priverebbe del necessario spessore e incidenza spirituale nell’intera comunità.

6. I bambini delle classi inferiori della catechesi non sono abili ad un atto così prolungato e notturno. Diverso è il caso dei ragazzi più grandi, come i cresimandi e i giovani. La celebrazione pasquale per l’intera catechesi potrebbe più opportunamente essere la grande Messa del giorno di Pasqua. Essi che hanno partecipato alla processione delle palme la domenica precedente e ne hanno ascoltato il ‘Passio’, intervenendo coralmente alla Messa grande della domenica di Pasqua ascoltano il vangelo della risurrezione. In tal modo i due aspetti del mistero pasquale, la passione e la risurrezione, si imprimerebbero nella loro mente attraverso le due grandi domeniche. Il ricordo del battesimo, poi, non dovrebbe mancare nella Messa del giorno di Pasqua, sia mediante l’aspersione nei riti di inizio, sia mediante l’uso del Credo apostolico nella professione di fede. Queste indicazioni mirano ad offrire elementi di riflessione per una corretta attuazione della Veglia pasquale, evitando il collasso di aspetti che sono ad essa connaturali e irrinunciabili.

IL SOGNO DI UNA VEGLIA PASQUALE IDEALE

Tre argomenti in favore di una Veglia pasquale incentrata sulla mezzanotte: motivo pratico, mistico e corale.

UNO STACCO NECESSARIO

Se la mezzanotte non è data come ora discriminante per la Veglia pasquale, si arriva alla prassi attuale, ispirata, si dice, a necessità pastorali. Ossia la Veglia è celebrata non più nella notte, ma all’ora della Messa festiva di vigilia o un po’ più tardi. Ma queste ore serali sono le normali ore dell’attività ordinaria al termine di ogni giorno: a quest’ora si va ad un concerto, ad una conferenza, ad uno spettacolo teatrale, ad una serata di vario genere. Questa allora non è propriamente la notte, ma la sera. La Veglia celebrata di sera viene privata di una sua componente essenziale: offrire a Dio il tempo del sonno, santificando la notte, mediante l’ascesi del ‘vegliare’. Ci domandiamo: la pastorale deve proprio sposare il ‘dogma’ della comodità a tutti i costi, rinunciando alla notte di Pasqua e alla notte di Natale, come attualmente sta succedendo? Che almeno nelle due notti sante, di Pasqua e Natale, non solo alcuni scelti – come i monaci, i religiosi o i laici impegnati -, ma tutto il popolo di Dio, nelle normali parrocchie, si disponga alla solenne celebrazione, vegliando nella notte e offrendo a Dio con generosità il tempo notturno, è veramente cosa pastoralmente impossibile e improponibile ai nostri giorni? Alla sera del Sabato santo il traffico è ancora intenso, il silenzio della notte lontano, vi è l’affanno della cena e il corpo si distende dopo la tensione del lavoro. I sacerdoti, stanchi per le confessioni – fin troppo concentrate nel pomeriggio del Sabato santo – non hanno neppure il tempo di un necessario stacco, che devono subito presiedere l’atto liturgico più impegnativo di tutto l’anno. I fedeli, trafelati nel trambusto festivo accorrono alla Veglia e domandano: “Padre, quanto durerà”? perché in realtà molti ricercano in essa la ‘messa prefestiva’ di Pasqua. E anche i parroci, assecondando talvolta queste richieste, tendono a semplificare alquanto il rito, riducendo le letture e velocizzando i riti per l’indisposizione dei fedeli, intenti ad assolvere semplicemente il ‘precetto’. Questa non può essere la Veglia pasquale! Se invece la Veglia è effettivamente verso la mezzanotte, i sacerdoti e i fedeli si possono sufficientemente distendere e, riabilitati nelle forze e vestiti a festa, celebrare con disposizioni migliori la santa Veglia. Questo stacco è già possibile sperimentarlo di più a Natale, almeno lì dove ancora si celebra a mezzanotte.

UN MOMENTO MISTICO E ATTESO

Il passaggio più singolare della Veglia pasquale, quando si canta il Gloria in excelsis e si riprende lo jubilus dell’Alleluia è spesso depotenziato: dopo una liturgia della Parola piuttosto breve, senza aver raggiunto un congruo clima di trepida attesa e, senza alcuno stacco rituale, si intona l’Inno angelico e si suonano le campane. Siamo lontani da quello stupore mistico e commosso di cui ci parlano le fonti antiche. È più eloquente la notte di Natale quando, a mezzanotte, si inizia la solenne eucaristia ‘in nocte’. Ma anche l’attesa frenetica del nuovo anno, nella notte di capodanno, produce una forte carica emotiva, suscitata da un preciso momento, lo scoccare della mezzanotte. Perché allora privare l’annunzio pasquale nella notte santa dell’esperienza di questa attesa fervorosa, che dà vigore e letizia spirituale all’annunzio della risurrezione, proprio al primo esordio del beato terzo giorno, quello in cui avvenne la risurrezione, il giorno ottavo che non avrà mai più tramonto? Questo non è sentimentalismo, ma ricchezza celebrativa, forza coesiva e testimonianza efficace. Se si vuole ridare alla Veglia pasquale il senso gioioso e commovente dell’attesa, occorre consentire che essa abbia il tempo necessario per impostare un itinerario progressivo verso un preciso termine, che in antico era il primo albeggiare del giorno della risurrezione e che oggi dovrebbe essere necessariamente lo scoccare della mezzanotte alla soglia della grande e santa Domenica di Pasqua. Dal momento che la liturgia si è arricchita in modo irreversibile della Messa solenne del giorno di Pasqua, e che questo giorno è ormai rivestito di regale e grande solennità, non è più auspicabile riproporre a tutto il popolo una Veglia che si estenda fino al mattino, come in antico per poi necessariamente ridurre la domenica di Pasqua a un giorno liturgicamente ‘vacante’. Ciò non sarebbe possibile, né per la grande affluenza di popolo che richiede le normali celebrazioni domenicali, né per i sacerdoti, tenuti alle molteplici celebrazioni e ai riti tipici del giorno di Pasqua. In questo contesto la mezzanotte dovrebbe ridiventare l’Ora da tutti accolta come discriminante tra le due parti della Veglia. Diversamente succede quello che attualmente si può constatare nelle varie ore serali del Sabato Santo: uno già ritorna dalla Veglia pasquale in una chiesa, mentre l’altro parte per la Veglia in un’altra chiesa. Povera Pasqua! Così è ridotta ad affare privato, persa nella routine del sabato sera. È migliore la grande cena che faremo sul tardi, tutti insieme!

UN ATTO CORALE E PUBBLICO

La celebrazione della Veglia, fatta all’unisono da tutte le comunità cristiane sul crinale della mezzanotte, offre un eccellente occasione per una testimonianza corale: la Chiesa, convocata nel cuore della notte santa, attende e annunzia la risurrezione del Signore. Questa coralità ha una profonda forza coesiva, alimenta la comunione della fede e crea il sentimento di un popolo unico e compatto nel dare al mondo l’annunzio che Cristo è Risorto. Una serie di veglie pasquali serali, in ore diverse, snerva e svilisce il senso comunitario del popolo di Dio e abbassa il tono dell’atto liturgico più solenne che la Chiesa possiede. La Chiesa, celebrando all’unisono la Veglia pasquale, invece, percepisce quasi fisicamente il suo essere un cuor solo e un’anima sola, soprattutto quando, a mezzanotte, acclama Cristo risorto e lo annunzia al mondo. Comunità, pur radunate in chiese diverse, ma simultanee nel celebrare la santa Veglia e insieme anelanti verso il giorno che Cristo inaugura con la sua risurrezione, interpretano egregiamente la bella espressione del salmo: Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! (salmo 132, 1). Per esprimere concretamente tale sinfonia, la mezzanotte diviene un criterio necessario e discriminante. In questo contesto , sarà possibile dare all’unisono anche l’annunzio pasquale al mondo esterno col suono delle campane. Infatti, una cosa è cogliere a malapena in diverse ore serali del sabato santo sporadici suoni di campane a seconda degli orari diversi delle Veglie nelle varie chiese – suoni che si perdono, soprattutto in città, nel tumulto di fine giornata – altro è udire chiaramente un unico suono concordato delle campane di tutta la città, o di tutta una valle, a mezzanotte, quando ormai l’ambiente è avvolto dal silenzio notturno e il loro suono può essere eloquente e disteso dovunque. Solo un scampanio così può diventare una efficace, significativa e pubblica testimonianza nella quiete della notte di Pasqua. È questione di organizzazione e di incisività. La Cattedrale, o la Chiesa maggiore, potrebbe guidare tutte le altre chiese e il suono dovrebbe essere alquanto prolungato. Ma, come si capisce, per realizzare un segno di tale forza, occorre un’ora precisa, la mezzanotte, l’ora più silente, più biblica, più poetica, più pratica, l’ora che, soprattutto, costituisce l’inizio del terzo giorno, il giorno della risurrezione.

Don Enrico Finotti

LA CRISI DEL MISTERO PASQUALE

don Enrico Finotti

Il Mistero pasquale è costituito da due pilastri indissociabili e da due movimenti necessari e conseguenti: la Passione e la Risurrezione, la Croce e la Gloria, il Venerdì santo e la Domenica di Pasqua

Oggi assistiamo ad una novella crisi del Mistero pasquale. Uno squilibrio di segno opposto a quello che poteva essere in passato, quando, in certe epoche, l’accento era forse eccessivo sulla dimensione penitenziale-ascetica, come configurazione alla morte del Signore e meno sulla gioia dei risorti. Il Concilio Vaticano II si è proposto una dovuta riscoperta della dimensione pasquale sul versante della vita e del trionfo di Cristo sulla morte e in tal senso ha ispirato i suoi documenti e in particolare la riforma liturgica. Ma questa necessaria accentuazione, spinta in modo estremo, ha provocato una sottolineatura esorbitante sul secondo aspetto del Mistero pasquale a detrimento del primo. Oggi, infatti, si tende verso la Risurrezione senza la Passione, si vuole la Gloria senza passare per la Croce, si celebra la Domenica senza aver celebrato il Venerdì, si accede alla Comunione senza il Digiuno e la Penitenza. Ecco perché una celebrazione pasquale che non prevedesse più l’itinerario penitenziale della Quaresima concretamente praticato, la preparazione ascetica e il prolungato clima di preghiera e di ascolto della Parola di Dio, la conversione e il sacramento della Riconciliazione e, infine, la veglia notturna e l’attesa trepida dell’annunzio della risurrezione, si inserirebbe nel clima critico di un Mistero pasquale decurtato nei suoi elementi costitutivi ed essenziali, per offrire un accesso facile e superficiale alla festa, che, appunto perché raggiunta senza impegno e su deboli basi, scade nel sentimento sterile e passeggero di una ‘Pasqua’ mondana.
Il cardinale Gotfried Danneels affronta l’argomento con lucidità e scrive: “Evangelo significa ‘buona novella’ e Pasqua è la festa della gioia. Siamo chiamati alla gioia e salvati per essere felici. Il cristiano è un uomo che risorge con Cristo. Non c’è però domenica di Pasqua senza il venerdì santo, non c’è Signore risorto senza il Crocifisso. La gioia pasquale non è perciò conquistata a buon mercato. Molti di noi conservano il ricordo di un cristianesimo austero, dai tanti comandamenti e proibizioni. Nel passato, infatti, c’è stato a volte un uso esagerato di penitenza, di rinuncia e di mortificazione. C’erano cristiani dalla ‘devozione dolorosa’. Di là sorge la qualifica di ‘dolorista’ attribuita a questa tendenza. Alcuni arrivavano perfino ad attribuire più importanza al venerdì santo che alla Pasqua. Ma il vento ha cambiato direzione. Sia il Vaticano II che il rinnovamento biblico e liturgico hanno posto al centro il Signore risorto e la gioia di Pasqua. C’è il rischio, però, che perdiamo di vista il venerdì. Non siamo forse sfociati in un cristianesimo ‘euforico’, in cui sono spariti dall’orizzonte la croce, la passione, il sacrificio e la rinuncia? La fede diventa allora una passeggiata primaverile in un campo di tulipani. Si pone una domanda: si tratta ancora del cristianesimo del Signore Gesù morto e risorto? Questa gioia è ancora la sua? Cosa significa una gioia di Pasqua che prescinda dalle sofferenze del Golgota? I cristiani ritornano verso il paganesimo; il Crocifisso è sostituito da una tela di Botticelli e Pasqua equivale pressapoco a ‘La sagra della primavera’ di Igor Stravinsky, uova e pulcini compresi!” (DANNEELS card. GOTFRIED, Non c’è domenica senza venerdì, ed. O.R, MI, 1993, p. 5).

IL TRIDUO PASQUALE: LA PASQUA CELEBRATA IN TRE GIORNI

don Enrico Finotti

Il Mistero Pasquale
Quando si parla di Pasqua normalmente si intende la risurrezione di Gesù. Pasqua è la festa di Gesù Risorto, la più grande festa dell’anno. Questo è vero, ma è incompleto.
Il mistero pasquale, infatti, contiene due movimenti fondamentali, presenti nella persona del Salvatore. Un movimento discendente di umiliazione e morte: Gesù che patisce e muore in croce ed è sepolto, e un movimento ascendente: Gesù che risorge e sale al cielo. Questo è il mistero della nostra redenzione: la persona del Verbo incarnato, che per noi muore e risorge.
Nel termine Pasqua vi è contenuto tutto il piano della salvezza, dall’Incarnazione al ritorno di Cristo nella gloria, anche se ordinariamente Pasqua indica più direttamente quello che è il momento centrale e culminante della redenzione, che è la passione, morte e risurrezione del Signore.

BENEDETTO XVI: IL SENSO AUTENTICO DELLA LITURGIA

Sulla bellezza della liturgia

Dall’omelia dei vespri nella cattedrale di Notre-Dame, Parigi, 12 settembre 2008

Il Figlio di Dio ha preso carne nel seno di una donna, di una vergine. La vostra cattedrale è un inno vivente di pietra e di luce a lode di questo atto unico della storia dell’umanità: la Parola eterna di Dio che entra nella storia degli uomini nella pienezza dei tempi per riscattarli mediante l’offerta di se stesso nel sacrificio della Croce.

Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita.

Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!

Sulla presenza reale nell’Eucaristia

Dall’omelia della messa all’Esplanade des Invalides, Parigi, 13 settembre 2008

Come giungere a Dio? Come giungere a trovare o ritrovare Colui che l’uomo cerca nel più profondo di se stesso, pur dimenticandolo così sovente? San Paolo ci domanda di fare uso non solamente della nostra ragione, ma soprattutto della nostra fede per scoprirlo.

Ora, che cosa ci dice la fede? Il pane che noi spezziamo è comunione al Corpo di Cristo; il calice di ringraziamento che noi benediciamo è comunione al Sangue di Cristo.

Rivelazione straordinaria, che ci viene da Cristo e ci è trasmessa dagli Apostoli e da tutta la Chiesa da quasi duemila anni: Cristo ha istituito il sacramento dell’Eucaristia la sera del Giovedì Santo.

Egli ha voluto che il suo sacrificio fosse nuovamente presentato, in modo incruento, ogni volta che un sacerdote ridice le parole della consacrazione sul pane e sul vino. Milioni di volte da venti secoli, nella più umile delle cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o delle cattedrali, il Signore risorto si è donato al suo popolo, divenendo così, secondo la formula di sant’Agostino, “più intimo a noi che noi medesimi” (cfr Confessioni III, 6.11).

Fratelli e sorelle, circondiamo della più grande venerazione il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il Santissimo Sacramento della presenza reale del Signore alla sua Chiesa e all’intera umanità. Non trascuriamo nulla per manifestargli il nostro rispetto ed il nostro amore! Diamogli i più grandi segni d’onore! Mediante le nostre parole, i nostri silenzi e i nostri gesti, non accettiamo mai che in noi ed intorno a noi si appanni la fede nel Cristo risorto, presente nell’Eucaristia…

Ancora sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia

Dalla meditazione conclusiva della precessione eucaristica. Lourdes, 14 settembre

L’Ostia Santa è il Sacramento vivo ed efficace della presenza eterna del Salvatore degli uomini alla sua Chiesa. (…) Una folla immensa di testimoni è invisibilmente presente accanto a noi, vicino a questa grotta benedetta e davanti a questa chiesa voluta dalla Vergine Maria; la folla di tutti gli uomini e di tutte le donne che hanno contemplato, venerato, adorato la presenza reale di Colui che si è donato a noi fino all’ultima goccia di sangue; la folla degli uomini e delle donne che hanno passato ore ad adorarlo nel Santissimo Sacramento dell’altare. (…) San Pier-Giuliano Eymard ci dice tutto, quando esclama: “La Santa Eucaristia è Gesù Cristo passato, presente e futuro”.

Gesù Cristo passato, nella ve.rità storica della sera nel cenacolo, ove ci conduce ogni celebrazione della santa Messa. Gesù Cristo presente, perché Egli ci dice: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. “Questo è”, al presente, qui e ora, come in tutti i “qui e ora” della storia umana. Presenza reale, presenza che supera le nostre povere labbra, i nostri poveri cuori, i nostri poveri pensieri. Presenza offerta ai nostri sguardi come qui, stasera, presso questa grotta ove Maria s’è rivelata come Immacolata Concezione.

L’Eucaristia è anche Gesù Cristo futuro, il Gesù Cristo che verrà. Quando contempliamo l’Ostia Santa, il suo Corpo di gloria trasfigurato e risorto, contempliamo ciò che contempleremo nell’eternità, scoprendovi il mondo intero sostenuto dal suo Creatore in ogni istante della sua storia. Ogni volta che ce ne cibiamo, ma anche ogni volta che lo contempliamo, noi l’annunciamo fino a che Egli ritorni: “donec veniat”. Proprio per questo noi lo riceviamo con infinito rispetto.